Martine Orange in un editoriale per il giornale online francese
Mediapart (ripreso dal portale
Presseurop) dipinge un quadro a tinte fosche sulle prospettive dell'area Euro di fronte alla crisi greca. Un atto d'accusa contro le scelte della Banca centrale europea (Bce), ritenute ostinate e miopi:
"Se fino a questo punto erano totalmente in sintonia, Bce e Germania ora si ritrovano su fronti opposti: Berlino è ormai del parere che una ristrutturazione del debito greco sia necessaria e accetta che i creditori privati si accollino una parte dell'onere. Paesi Bassi, Finlandia e il presidente dell'Eurogruppo, Jean-Claude Juncker, sostengono la posizione tedesca. Sul fronte opposto, la Francia appoggia la posizione della Bce, che, continuando a contraddire la realtà oggettiva, pensa che un secondo programma d'austerity, accompagnato da privatizzazioni massicce, consentirà di togliere la Grecia dal pantano, malgrado il primo programma sia fallito. Le cifre, tuttavia, lasciano ben poco da sperare e occorre pertanto arrendersi a una semplice realtà: la Grecia non è solvibile.
Perché la Banca centrale europea si rifiuta di ammettere questo dato di fatto ed esclude per principio qualsiasi ristrutturazione del debito? In fondo, si tratterebbe soltanto di 300 miliardi di euro al massimo, somma sicuramente rilevante, ma che rappresenta appena il 2% del Pil europeo.
Una ristrutturazione del debito porterebbe la Grecia a essere esclusa dai mercati per anni. Di conseguenza, il paese non potrebbe rifinanziarsi: questa, almeno, è la spiegazione fornita dalla Bce. In realtà, però, Atene è già fuori da ogni mercato.
Nel frattempo, prendendo a pretesto la crisi, le banche sono riuscite a ottenere deroghe su tutte le regole contabili. Gli stress test realizzati l'anno scorso per misurare la solidità delle 90 banche più grandi d'Europa hanno dimostrato l'opacità del sistema. Tre settimane dopo aver superato senza difficoltà tutti i test, tre banche irlandesi sono fallite.
Questa situazione è il risultato delle scelte fatte dalla Bce e dai governi europei al momento della crisi. Invece di obbligare le banche a fare chiarezza sui loro bilanci, a ripulire i loro conti da ogni prodotto tossico, invece di obbligarle a ricapitalizzarsi, si è preferito guadagnare tempo. Dal canto suo, la Bce ha prestato loro al tasso dell'1% tutti i soldi che volevano. La maggior parte degli istituti, di conseguenza, l'anno scorso è riuscita a presentare risultati straordinari, inducendo a credere che gli effetti della crisi fossero stati interamente cancellati. Si è trattato di una pia illusione, dal momento che il sistema bancario non è stato riformato.
Una simile strategia, consistente nell'allontanare le scadenze e astenersi dal prendere decisioni, è stata adottata al momento dell'esplosione della crisi greca e dei debiti pubblici in Europa. Un'idea di fondo sovrasta qualsiasi discussione: dare il via libera a una ristrutturazione in Grecia provocherebbe una reazione a catena peggiore di quella verificatasi all'indomani del fallimento della Lehman Brothers nel 2008. Secondo le previsioni della Bce, tutto il sistema bancario europeo andrebbe in rovina.
Che la Bce lo voglia o no, l'effetto contagio si è già esteso a tutta la zona euro. L'evoluzione del debito portoghese e irlandese segue da vicino quella del debito greco e la minaccia ormai grava anche sul sistema bancario. La Bce lo sa meglio di chiunque altro. Fino a quando i responsabili europei continueranno a procrastinare la ripulitura delle banche? La questione non è sapere se la Grecia procederà alla ristrutturazione, ma soltanto quando e come, ripetono gli analisti. I cambiamenti non possono attendere ancora a lungo. A meno di veder saltare in aria la Grecia e l'intera zona euro. (traduzione di Anna Bissanti)"
Sulla stessa lunghezza d'onda una ricerca del think tank economico
Peterson Institute. Nell'autunno 2008 l'Europa centro-orientale è diventata uno degli epicentri della crisi economica globale. Ora che quei paesi (tranne la Romania) sono tornati a crescere e mentre l'attenzione si sposta drammaticamente sui cosiddetti Piigs (Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia e Spagna), una ricerca di
Anders Åslund si domanda quale lezione l'economia continentale, di nuovo sotto stress, possa trarre dalla risoluzione della crisi finanziaria dell'Est Europa. Aslund descrive puntualmente la virtuosa reazione dell'Oriente europeo alle difficoltà del biennio scorso. Innanzitutto, non vi sono state significative prese di posizione contro la globalizzazione, il capitalismo, l'Ue o l'euro, né grandi scioperi o conflitti sociali. Piuttosto, l'opinione pubblica ha chiesto responsabilità e leadership alla propria classe dirigente, accettandone largamente le scelte. Un'impostazione liberale e liberista ha guidato l'azione dei vari governi dell'area, che non hanno tuttavia operato drastici tagli ai sistemi di welfare. Il notevole grado di coesione sociale dimostrato ha comunque consentito la riduzione generalizzata della spesa pubblica e dei salari. La razionalizzazione dei sistemi sanitari e dell'istruzione si è accompagnata a un aumento della disoccupazione. Misure austere, ma che si stanno dimostrando efficaci e che inducono l'autore a considerare il "modello orientale" replicabile nel resto del Vecchio Continente e a ritenere obsoleta la divisione (de facto tuttora esistente nella Ue) tra Stati membri di prima e seconda classe.
E' tutta l'economia occidentale a vivere una fase delicata. L'America sperimenta il peggior deficit dai tempi della Seconda guerra mondiale, mentre Eurolandia è interessata da una vera e propria "guerra civile" finanziaria. Da un lato i Piigs (Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia e Spagna) che temono la bancarotta. Dall'altro, i due pesi massimi continentali (Germania e Francia, ma non la pericolante Gran Bretagna) che cercano di evitare il default greco. Ognuno a modo suo. Detto brutalmente, Nicolas Sarkozy vorrebbe che fosse la locomotiva tedesca a sopportare il fardello dell'agonizzante economia greca, mentre Angela Merkel spinge perché Atene si assoggetti a una ferrea disciplina fiscale e riformi il suo sistema economico. Del resto, le schermaglie franco-tedesche non rappresentano una novità nel panorama continentale. Ciò che inquieta
Josef Joffe editorialista di Die Zeit e accademico, sono invece la salute e le prospettive dell'area Euro. Negli ultimi dieci anni, invece di costringere gli Stati membri alla convergenza fiscale, l'euro ne ha accentuato le peggiori abitudini. I Piigs, in particolar modo, hanno vissuto al di sopra dei propri mezzi e le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti.
L'Europa prenderà tempo, cercherà di sostenere Atene per quanto possibile, ma il default è inevitabile. Già da ora è evidente che i ventisette Stati membri non sono in grado di dar corpo alla "più perfetta unione" vagheggiata dagli europeisti convinti. Di chi è la colpa? Sicuramente la Germania, il leader naturale della Ue, non è esente da responsabilità anche a causa della titubante gestione Merkel. E cosa accadrà quando i nodi di una mal concepita unione monetaria verranno al pettine?
Né Berlino né Parigi riusciranno a correggere nell'emergenza anni e anni di cattiva gestione.
Se si pensa, conclude Joffe, che gli Usa devono fronteggiare un dollaro declinante e una disoccupazione crescente risulta difficile ricordare un periodo della storia recente caratterizzato da una simile debolezza di entrambi i pilastri euro-atlantici dell'economia globale.
Il termine
Double-Dip implica un fenomeno economico unico che si snoda su due recessioni (recessione a W). Questo è il rischio che molti analisti paventano per l'economia Usa dopo la faticosa ripresa dal tracollo dell'autunno 2008.
Amity Shlaes, senior fellow in Storia economica presso il
Council on Foreign Relations teme che gli Stati Uniti possano rivivere la traumatica esperienza del triennio 1980-82 e suggerisce, per evitare una nuova recessione a W, che la Federal Reserve proceda quanto prima a un rialzo dei tassi di interesse. Quanto è accaduto negli anni ottanta del secolo scorso all'America è piuttosto eloquente: il Paese ha avuto bisogno di una recessione per avviare una reale ripresa.
Dagli anni sessanta in poi, i policy makers, rinfrancanti dalla grande crescita post-bellica, hanno avuto la presunzione di gestire "l'inflazione strisciante" prima che si trasformasse nella temuta "inflazione galoppante". L'eccesso di ottimismo è scemato alla fine degli anni settanta quando l'inflazione è arrivata a toccare e superare il 10% nonostante i rialzi dei tassi decisi dalla Fed. La causa? Non solo e non tanto l'aumento dei prezzi dell'energia, quanto piuttosto la mutata percezione generale. I prezzi sono influenzati da ciò che la gente pensa essere il costo di un bene, ma anche dalle aspettative future sul costo del medesimo bene. All'inizio degli anni ottanta, i mercati cominciarono a sospettare che il futuro riservasse loro meno crescita è più inflazione di quanto indicato dalle istituzioni finanziarie.
Paul Volcker, che Jimmy Carter designò alla direzione della Fed nel 1979, operò un drastico rialzo dei tassi d'interesse, spiegandolo in questo modo: "Non siamo preoccupati di aggravare la recessione, ci interessa solo fermare l'inflazione." La cura del governatore non impedì che, a partire dall'estate del 1981 e fino al termine dell'anno successivo, il Paese ricadesse nella spirale recessiva con picchi di disoccupazione oltre il 10%. "La recessione è stata causata dall'assoluta necessità di eliminare l'inflazione", sentenziò George Melloan, prestigiosa firma del Wall Street Journal. Fino agli anni novanta, la Fed non ha più abbassato i tassi al di sotto dei cinque punti percentuali. Questo atteggiamento convinse gli americani della determinazione nel combattere l'inflazione e il successivo abbassamento dei tassi indusse milioni di contribuenti a costruire, investire e comprare abitazioni. Al lavoro di Volcker, da molti criticato nel breve periodo, va riconosciuto il merito di aver reso più semplice il compito dei decisori politici e delle istituzioni finanziarie venuti dopo di lui.
Sinora l'inflazione non è tra le tematiche che più interessano coloro che seguono l'attualità politico-finanziaria, ma questo momento storico ricorda sotto molti aspetti gli anni settanta perché la Fed ha fatto sapere di essere disposta a tollerare l'inflazione. Nessuno ipotizza che il governatore, Ben Bernanke, possa procedere a un deciso aumento dei tassi. Eppure, il precedente degli anni ottanta è chiaro e rimanda a due duri insegnamenti per economisti e politici. Primo, l'inflazione strisciante si trasforma in galoppante prima che gli esperti se ne rendano conto; secondo, posporre interventi drastici costringe a successivi, netti, rialzi dei tassi di interesse.
Anche il direttore di
Truthdig.com,
Robert Scheer, si affida alla storia economica per fustigare l'ex presidente Usa, Bill Clinton. Scrivendo per
Huffington Post, Scheer si domanda se Clinton avverta la minima responsabilità rispetto all'attuale crisi economica. Evidentemente no, a giudicare dal memo in 14 punti scritto per Newsweek e denso di consigli su come risollevare l'economia Usa. Clinton forse dimentica che il collasso del mercato dei mutui e la aberrante deriva di Wall Street di certo non sono stati ostacolati dalla sua amministrazione (1993-2001). Appoggiando l'agenda finanziaria della maggioranza Repubblicana al Congresso (deregulation) e svuotando le garanzie previste dal New Deal, Clinton ha perseguito politiche che nel lungo termine hanno danneggiato gravemente l'economia nazionale.
"Cio che ha ucciso la nostra economia negli ultimi dieci anni è stata le decisione di dedicare la nostra creatività all'espansione del settore finanziario, ma in maniera sbagliata. Invece di creare nuove nicchie produttive e opportunità lavorative, il sistema ha persuaso la gente a contrarre debiti a fronte di una contrazione delle entrare salariali", scrive Clinton su Newsweek. Analisi corretta, incalza Scheer, ma l'ex inquilino della Casa Bianca sembra dimenticare le sue responsabilità, tutt'altro che secondarie.
E' stato Clinton a cancellare il Glass-Steagall Act, provvedimento ideato niente meno che dall'amministrazione Roosevelt (Franklin Delano) per impedire alle istituzioni finanziarie di diventare troppo grandi per fallire. E'stato Clinton a firmare il Financial Services Modernization Act, che ha rotto gli argini che separavano le instabili banche di investimenti di Wall Street dagli istituti utilizzati dai privati cittadini per depositare i propri risparmi. E' stato ancora Clinton che nel 2000, il suo ultimo anno di mandato, ha approvato il Commodity Futures Modernization Act, che ha esentato dalla regolamentazione governativa tutta una serie di titoli e obbligazioni poi rivelatisi altamente tossici. Una serie di provvedimenti non estranei alle conseguenza disastrose che oggi, un decennio e una recessione più tardi, l'ex presidente giustamente biasima. (A cura di Fabio Lucchini)