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UN NUOVO CONCETTO DI LIBERTA' E BENESSERE
E' possibile costruire un'economia del benessere dove il grado di felicità della popolazione sostituisca il Pil come indice di misurazione? Utopia? In tempi di crisi globale, un concetto indefinito come "la felicità" sta diventando un obiettivo politico. Il remoto Stato del Bhutan ha rimpiazzato il Prodotto interno lordo con la Felicità interna lorda. Nel 2008 la Commissione Sarkozy, presieduta da due premi nobel, ha auspicato uno "sforzo globale per sviluppare più ampli indici di misurazione del benessere". Enunciazioni riprese dai governi britannico, cinese e brasiliano. Davanti a queste suggestioni, Carol Graham (Brookings Institution) si interroga nel suo nuovo libro, The Pursuit of Happiness (La ricerca della felicità), su quale sia la definizione di felicità più rilevante e appropriata per la politica.
La scelte politiche, dal canto loro, sono mosse da complessi fattori di natura culturale. Fattori che a loro volta influenzano la definizione di felicità. Secoli fa,
Jeremy Bentham identificava la felicità come l'appagamento e il piacere provato dal maggior numero possibile di individui nella vita di ogni giorno. Aristotele la concepiva invece come eudaimonia, vale a dire l'opportunità di raggiungere una vita densa di soddisfazioni e risultati. Oggi vediamo che l'organizzazione di alcune società umane aderisce maggiormente alla definizione benthamiana, mentre altre, come gli Stati Uniti che hanno inserito "la ricerca delle felicità"  tra le enunciazioni della loro Dichiarazione di Indipendenza, propendono per l'impostazione aristotelica.
Rimangono dunque dei nodi da sciogliere prima che la comunità internazionale possa perseguire coerentemente (e concretamente) la felicità come obiettivo politico: E' più importante vivere bene o avere opportunità di successo e raggiungere risultati? Ci interessano di più la salute, la socialità e il divertimento o l'innovazione e la produttività? La felicità è un concetto più complicato del reddito e rappresenta una meta ben più ambiziosa e per ora indefinita. Tuttavia, una nota positiva è già evidente. In un momento in cui il dibattito pubblico e così acceso e lo squilibrio globale di risorse tanto lacerante, è incoraggiante che si presti finalmente attenzione al benessere complessivo delle popolazioni.
"I governi si concentrano sulla crescita economica, ma gli esseri umani sono più interessati a perseguire la giustizia e il benessere". E' l'incipit dell'intervento di Martha Nussbaum all'incontro recentemente organizzato a Milano dalla Fondazione Corriere della Sera (La sfida della giustizia globale). Nussbaum, professoressa presso il dipartimento di Filosofia, la Law School e la Divinity School dell'Università di Chicago, studia da anni le tematiche della giustizia globale e dello sviluppo umano: "La ricerca del profitto finanziario spesso trascura alcuni ovvi aspetti fondanti della vita umana...Il Pil non è una misura efficiente perché non fotografa adeguatamente gli squilibri interni di un paese. Pensiamo alla Cina, esaltata dagli indici puramente economici di sviluppo ma tuttora attanagliata da gravi disuguaglianze interne e povertà diffusa. Nel Paese le libertà fondamentali sono spesso negate e la salute delle persone non tutelata. Godere di buona salute, proteggere la propria incolumità personale, accedere a un lavoro dignitoso e poter esprimere le proprie opinioni: tutte esigenze che un approccio politico-economico che pone l'accento soltanto sull'aumento del Pil non può cogliere."
Più promettente appare invece un'agenda internazionale costruita per valorizzare la capacità umane centrali che Nussbaum identifica nella vita stessa, nella salute e l'integrità fisica, nei sensi, l'immaginazione e il pensiero, nei sentimenti, nella ragion pratica, nell'appartenenza, nel gioco e la ricreazione, nel controllo del proprio ambiente e il rapporto con le altre specie. La battaglia per l'empowerment globale dovrebbe coinvolgere tutte le nazioni e concretizzarsi nello stanziamento del 2% del Pil dei paesi più avanzati a vantaggio della formazione e dello sviluppo personale degli abitanti delle aree più disagiate, non solo nei paesi più poveri. Basti pensare che la piaga della violenza domestica non è rara nel mondo occidentale e negli Stati Uniti in particolare, dove ben il 18% delle donne è stato vittima di abusi compiuti dal partner. Dati allarmanti che evidenziano quanta strada si debba ancora compiere per accrescere e diffondere la capacità umane centrali e per migliorare la qualità della vita nei paesi in via di sviluppo come in quelli ad economia matura.

La crescita degli emergenti sta cambiando l'economia globale più di quanto pensiamo. I dati presentati da Uri Dadush e William Shaw (Carnegie Endowment for International Peace) lo confermano. Le proiezioni relative al Pil dei paesi membri del G20 indicano che entro il 2050 il valore dell'economia globale sarà più che triplicato rispetto a oggi. Nell'ordine, Cina, Stati Uniti e India emergeranno come le economie più grandi, 600 milioni di persone usciranno dalla povertà (considerando solo i paesi del G20) e prenderà forma una nuova classe media, per lo più residente nei paesi in via di sviluppo. Anche se domineranno l'economia globale, i paesi emergenti rimarranno relativamente poveri. Nel 2050 i redditi pro capite cinese e indiano raggiungeranno appena il 37 e l'11% di quello statunitense, ma ciò non inciderà su un trend che appare chiaro e che vedrà il 70% del commercio globale nelle mani delle economie emergenti. Le istituzioni internazionali dovranno adattarsi ai nuovi rapporti di forza o rassegnarsi ad essere marginalizzate. La recente promozione del G20 a discapito del G8 è un primo segnale in tal senso.
Tuttavia, il progresso che dati e tabelle descrivono potrebbe essere rallentato o addirittura impedito. La crescita di quello che un tempo veniva considerato "Terzo Mondo" è circondata da incognite e minacce, quali il risveglio di tensioni geopolitiche associate al declino delle vecchie potenze e all'ascesa delle nuove e il rischio di crisi finanziarie aggravate da drastiche chiusure protezionistiche.  Gli standard di vita, che si stanno innalzando ovunque, avranno forti ripercussioni sulle emissioni inquinanti, rendendo più frequente il ripetersi di gravi disastri ambientali.
Nel complesso, la crescita dei paesi in via di sviluppo avrà profonde ripercussioni sui quattro principali canali della globalizzazione - il commercio, la finanza, le migrazioni e i commons, i beni comuni globali. Proprio i conflitti intorno ai commons - le risorse che non appartengono a qualcuno in particolare ma che vengono sfruttate da molti (ad esempio, le risorse ittiche negli oceani) - offrono il più drammatico esempio delle sfide che la crescita dei paesi emergenti pone alla cooperazione internazionale. Da un lato, la crescita economica e il peso demografico degli emergenti consentirà loro di diventare sempre più attivi nello sfruttamento delle risorse (similmente ai paesi avanzati). Dall'altro, le differenze tra vecchie potenze ed emergenti rimarranno rilevanti per quanto riguarda i redditi, le competenze tecnologiche, le strutture politiche e i valori sociali.
Due principi di fondo dovrebbero guidare gli sforzi per raggiungere una crescita globale sostenibile e mitigare i seri rischi connessi all'ascesa dei paesi in via di sviluppo. In primo luogo, se si accetta un assunto di fondo, ossia che il potere decisionale è destinato a rimanere nelle mani dei paesi più forti, gli accordi globali richiederanno la nascita di un'autentica coscienza globale che riconosca che il destino delle nazioni sarà sempre più inestricabilmente legato alla loro capacità di cooperare. In secondo luogo, il sistema di cooperazione internazionale che ha contribuito al progresso economico dalla Seconda Guerra mondiale in poi non è più adeguato alle sfide presenti e future. Gli accordi multilaterali che hanno dominato sinora la scena globale, frutto di enormi compromessi e spesso deludenti nei risultati raggiunti, sono superati.
Le questioni sul tappeto sono troppo complesse perché un gran numero di paesi possa concordare su tutto. Il metodo negoziale dovrà cambiare e puntare ad accordi tra una massa critica di attori internazionali su aspetti specifici, che lascino la porta aperta a quegli Stati che volessero aggiungersi più tardi. L'epoca dei grandi (e vuoti) accordi di principio si sta chiudendo, le sfide del futuro multipolare non tollerano ulteriori dilazioni e richiedono agli Stati impegni precisi e vincolanti.

Gli eventi della primavera araba hanno riaperto il dibattito sul ruolo degli Stati Uniti nella promozione della democrazia nel mondo. Una tematica che sembrava accantonata dopo il cambio della guardia alla Casa Bianca. L'Agenzia statunitense per lo sviluppo internazionale (Usaid) ha dedicato all'argomento una conferenza dove l'organizzazione ha delineato una nuova strategia operativa per rafforzare democrazia, diritti e governance nei paesi oggetto di intervento. Nel suo contributo, Thomas Carothers (Carnegie Endowment for International Peace) confronta la situazione attuale al contesto nel quale si muovevano la politica estera e la cooperazione Usa nel 1989. L'amministratore di Usaid, Rajiv Shah, riflette invece sull'evoluzione democratica dell'assistenza alla sviluppo ai tempi della primavera araba.
Carothers ricorda che dopo il crollo del Muro di Berlino la transizione democratica non ha interessato soltanto il mondo post-comunista dell'Europa centro-orientale, ma ha toccato anche l'America Latina, alcune regioni dell'Asia e dell'Africa sub-sahariana. Se la fine del comunismo in Europa è stata sostenuta con entusiasmo degli Usa, ormai vincitori della Guerra Fredda, Washington ha dimostrato in quel periodo un minore entusiasmo rispetto ai cambiamenti in atto nel resto del mondo. Insomma, un atteggiamento quasi neutrale rispetto ai movimenti democratici extra-europei.
In realtà, sia gli ambienti diplomatici che il mondo della cooperazione non avevano le idee chiare su come sostenere la democrazia all'estero. La cooperazione allo sviluppo (in particolare organizzazioni come Usaid) si concentrava sul rafforzamento delle istituzioni dei paesi in transizione piuttosto che sul lavoro a contatto con la società civile. Del resto, negli anni novanta era ancora forte il retaggio della Guerra Fredda, che aveva visto il governo statunitense diffidare dei movimenti popolari. L'idea che i cittadini delle nuove democrazie dovessero essere responsabilizzati appariva eccentrica.
Alla fine degli anni novanta molto è cambiato. La democrazia ha avuto successo nell'Europa centro-orientale, ma meno nell'ex Unione Sovietica. Nel mondo extra-europeo i risultati sono stati contrastanti. Sebbene il governo statunitense abbia continuato a enfatizzare il suo impegno per la diffusione della democrazia, è chiaro che lo stato di grazia democratico vissuto dal mondo negli anni novanta si sia affievolito con l'inizio del nuovo millennio. Negli anni duemila la democrazia ha dovuto fronteggiare la concorrenza di altri modelli di governance, populistici e assertivi, mentre i residui governi autoritari hanno resistito con vigore all'avanzata del pluralismo. Inoltre, in seguito alla crisi finanziaria del 2008, i regimi liberaldemocratici dell'Occidente hanno perso fiducia e autorevolezza.
Oggi appaiono timidi segnali incoraggianti. Molti paesi si stanno arricchendo, il che può essere positivo per la loro democratizzazione, e nuovi mezzi di comunicazione rendono più informate e consapevoli le persone. Il sistema globale tende al multipolarismo e molte delle potenze emergenti (Turchia, Indonesia, Corea del Sud e Cile) sono democratiche e fungono da esempio positivo. E poi, ovviamente, l'inattesa primavera araba.
Il nuovo contesto del 2011 invoglia a sviluppare un più ampio concetto di assistenza democratica allo sviluppo. In quest'ottica, tutti coloro che si occupano di aiuto allo sviluppo, siano essi Ong, enti governativi o istituzioni multilaterali, devono lavorare per mettere in campo un approccio integrato che combini l'assistenza economica con la crescita democratica delle comunità che ricevono l'assistenza. Imperialismo culturale? No, conclude, Carothers, che auspica un'azione volta a migliorare le condizioni complessive dei paesi in via di sviluppo e a fornire alle popolazioni locali gli strumenti per sollevarsi dalla povertà e per pianificare con consapevolezza il proprio futuro.
Raj Shah, amministratore di Usaid, specifica meglio il concetto soffermandosi sul caso tunisino, " mirabile esempio di un popolo pieno di dignità, rivolto al progresso e capace di utilizzare la tecnologia per cementare la sua unione e per responsabilizzare i suoi nuovi leader". Come ha sottolineato il presidente Obama, argomenta Shah, viviamo in un mondo guidato da un nuovo paradigma dell'interesse nazionale. Ragion per cui non è realistico affidarsi all'insostenibile stabilità garantita dagli autocrati. Nei paesi emergenti esistono altri attori da considerare: i parlamenti, i partiti di opposizione la società civile e, soprattutto, gli individui. Non è più d'attualità lo stucchevole dibattito su cosa sia prioritario tra democrazia e sviluppo economico (più importante la dignità umana o il pane?). La primavera araba ci ricorda come prosperità economica e libertà politica debbano procedere di pari passo. Questo non significa che la democrazia sia condizione necessaria per la crescita economica, come ci ricordano le esperienze di successo dei regimi autoritari in Cina e Vietnam. Tuttavia, molto più numerosi sono i casi di insuccesso economico dell'autoritarismo, senza dimenticare che, anche quando un paese soggetto a un governo dittatoriale cresce, lo fa in maniera squilibrata lasciando gran parte della popolazione nella miseria. Si pensi alla Guinea Equatoriale, dove il 70% della popolazione vive nella più nera povertà nonostante gli elevatissimi indici di crescita economica dell'ultima decade.
Gli straordinari avvenimenti del mondo arabo rappresentano un grande opportunità non solo per le popolazione dell'area ma anche per tutti i sinceri sostenitori della democrazia nelle cancellerie e nei consessi internazionali. Per cogliere l'attimo è peraltro necessario cambiare mentalità. I professionisti della cooperazione allo sviluppo hanno spesso commesso l'errore di definire il benessere delle popolazioni solo in termini di Pil e aspettative medie di vita, ignorando altre esigenze fondamentali, quali gratificazione, partecipazione e libertà d'espressione. Se saremo in grado di ampliare la nostra visione, conclude Shah, potremo cogliere i frutti della rinascita democratica che stiamo vivendo. (A cura di Fabio Lucchini)
 

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