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LA GUERRA EUROPEA ALLE AGENZIE DI RATING
Policy Network, luglio 2011,

La disunità è stata una delle principali caratteristiche della crisi del debito nell’Eurozona. Gli Stati creditori biasimano i paesi debitori per la loro irresponsabilità fiscale, così dannosa per la salute della moneta unica. Nelle ultime settimane, anche la Germania è stata da più parti accusata per la sua mancanza di leadership nella gestione della crisi, mentre è proseguito il defatigante dibattito tra Banca Centrale Europea (Bce) e Stati membri sulla natura della partecipazione del settore privato alla ristrutturazione del debito greco. Tuttavia, quasi inaspettatamente, i leader dei paesi europei hanno trovato un’improvvisa convergenza e formato un fronte unitario contro le principali agenzie internazionali di rating, considerate ormai una vera e propria minaccia alla stabilità del Vecchio Continente. Olaf Cramme, direttore di Policy Network, indaga nelle pieghe del compattamento difensivo dell’Ue e della prossima guerra alle “tre sorelle” (Moody’s, Fitch e Standard & Poor’s).
Il casus belli del conflitto si ritrova nelle recenti valutazioni espresse da Moody’s e Standard & Poor’s, le due maggiori agenzie di rating, in particolar modo le decisioni di declassare i debiti portoghese e irlandese. Il commissario al Mercato Interno, Michel Barnier, ha guidato la rivolta europea criticando la sproporzionata influenza esercitata dalle tre sorelle, in grado di controllare oltre il 90% del mercato. La promessa chiara: a partire dal prossimo autunno, l’Europa metterà in campo misure per limitare il potere delle agenzie di rating, per favorire una maggiore competizione anti-oligopolistica nel settore  e per far sì che le agenzie stesse sviluppino le proprie analisi e valutazioni in maniera più trasparente. Come se non bastasse, Barnier sta considerando il bando del rating nei confronti dei paesi interessati da operazioni internazionali di salvataggio (vedi Grecia) e ha evocato la prossima creazione di un’agenzia europea.
Perché l’Europa sta flettendo i muscoli? Cramme condivide l’opinione di molti altri autorevoli commentatori, secondo i quali vi sono ottime ragioni per mettere sotto accusa le pratiche adottate dalle agenzie di rating. Gli Stati non possono essere classificati come se fossero prodotti o società per azioni e il processo che conduce le agenzie a emettere le proprie valutazioni rimane troppo opaco. Come noto, inoltre, le agenzie di rating non sono state in grado di riconoscere i sintomi della crisi finanziaria che ha investito l’economia globale a partire dal 2008, hanno espresso valutazioni lusinghiere nei confronti di strumenti finanziari assai dubbi e sviluppato macroscopici conflitti di interesse con società e gruppi le cui attività economiche avrebbero dovuto invece valutare imparzialmente.
Ciò considerato, la dura presa di posizione degli europei sembra far emergere preoccupazioni, lungamente covate, rispetto al corretto funzionamento dell’Unione Monetaria, uno dei pilastri dell’intera architettura dell’Ue e rispetto all’efficienza del Patto di Stabilità, che secondo molti analisti rappresenta ormai un freno alla crescita e allo sviluppo economico. Gli eventi delle ultime settimane dovrebbero aver aperto gli occhi dei leader europei: l’integrazione economica e monetaria dell’Ue ha ridotto in maniera significativa lo spazio di manovra della politica su di una varietà di questioni cruciali, tra cui la maggior parte degli interventi per regolare i mercati finanziari, che rientrano ormai nella quasi esclusiva competenza della legislazione comunitaria. Una volta compreso quanto sta avvenendo, i governi nazionali si ritrovano intrappolati tra gli imperativi dell’economia e le crescenti domande per una più ampia partecipazione democratica alle scelte cruciali per il futuro di un paese.
La saga delle agenzie di rating e del loro ruolo nella crisi dell’Eurozona, conclude Cramme, deve essere riletta nel contesta sopra descritto. Potrebbe essere solo l’inizio di un opportuno dibattito su come gestire nel modo più adeguato un ambiente finanziario europeo sempre più infido e che vede agitarsi forze diverse e contrapposte, quali le pressioni esercitate dalla fluida economia globalizzata, la volontà di molti membri Ue di riaffermare l’auto-determinazione nazionale e il bisogno che tutti gli attori coinvolti si responsabilizzino e agiscano con trasparenza. Se un severo regime di regole (come è del resto l’Unione Monetaria Europa) rimane indispensabile, le politiche democratiche dei governi devono essere in grado di metabolizzarlo adeguatamente all’interno dei singoli Stati nazionali. Se rimarrà la sensazione, diffusa in molti paesi membri, che gli standard Ue vengano imposti dall’esterno, permarrà e si aggraverà l’attuale tensione tra gli obiettivi di una più profonda integrazione comunitaria e la tendenza centrifuga a riaffermare la sovranità nazionale. E’ una questione che non affligge soltanto l’Europa, ma interessa l’anima stessa della globalizzazione.
 
SCHEDA. I DUBBI SULLE AGENZIE DI RATING
E’iniziata ufficialmente la guerra alle agenzie di rating. Dopo il declassamento a spazzatura dei titoli di Stato del Portogallo da parte di Moody's, anche l’Europa si è ribellata. Autorevoli politici dell’Ue, guidati dal presidente della Commisione Josè Mauel Barroso, hanno denunciato "l'oligopolio" delle agenzie di rating. In particolare, ministro delle finanze tedesco Wolfgang Schäuble si è impegnato mettere fine al potere finanziario delle agenzie nell'Eurozona. Filtra anche la proposta di istituire un'agenzia del rating europea, mentre in Italia la Consob ha aperto un’inchiesta sui giudizio espressi da Standard & Poor's e di Moody's e il Tribunale di Milano ha imposto alla prima a risarcire Parmalat per le valutazioni errate del suo debito.
Prese di posizione che seguono la scelta cinese di dotarsi un'agenzia nazionale e la decisione statunitense di modificare il regolamento bancario interno per limitare il potere delle “tre sorelle” (Moody’s, Standards & Poor e Fitch) di incidere sugli equilibri finanziari con le loro valutazioni.
Già nel mese di Aprile le maggiori agenzie di rating avevano subito un duro attacco da parte del Congresso americano. Secondo le conclusioni di un’indagine di due anni compiuta dal Permanent Subcommittee on Investigations del Senato, Moody’s e Standard & Poor's hanno avuto un ruolo preponderante nell’aggravare la crisi finanziaria scoppiata nel 2008. L’operato di Fitch, la “terza sorella” non è stato preso in considerazione. Il panel senatoriale ha messo in evidenza come le agenzie di rating incriminate abbiano continuato ad assegnare valutazioni lusinghiere ai titoli legati ai mutui ipotecari quando già da mesi il mercato edilizio stava collassando, salvo poi (luglio 2007) procedere a un repentino abbassamento della valutazione. Invece di procedere ad analisi accurate dei rischi, le due maggiori agenzie di rating hanno dato il benestare a prodotti finanziari tutt’altro che affidabili, consentendo alla banche di investimenti loro clienti di proporli agli ignari investitori.
Il sotto-comitato senatoriale ha articolato e dettagliato le accuse: le agenzie di rating non si sono limitate a contribuire all’ingrossamento di un pericolosa bolla, ma hanno avuto un ruolo essenziale anche nella disastrosa esplosione della stessa. Infatti, i declassamenti del 2007 hanno gettato nel panico il mercato costringendo prestatori, regolatori e  banche di investimento a riconoscere le deboli basi economiche dei loro profitti. Come le banche loro clienti, le due agenzie di rating incriminate si sono mosse privilegiando profitti di breve termine e disinteressandosi dell’integrità di lungo periodo delle fondamenta del sistema in cui operavano.
Sotto un certo punto di vista, le agenzie stesse sono rimaste paralizzate da un conflitto di interessi endemico dovuto al fatto che le loro valutazioni, tenute in elevata considerazione dagli investitori di tutto il mondo, sono spesso sovvenzionate dalle banche che emettono quei titoli che le agenzie di rating dovrebbero analizzare e classificare in base alla tipologia di rischio. Ad accentuare le ombre contribuisce la composizione del capitale di Moody's e delle altre due grandi agenzie internazionali di rating: Standard & Poor's e Fitch. La loro proprietà lascia sospettare giganteschi conflitti d'interesse. Moody's è in mano a Berkshire Hathaway una delle maggiori società d'investimento del mondo di proprietà del finanziere Warren Buffett, e a Fidelity uno dei maggiori gestori di fondi. Standard & Poor's, quotata alla Borsa di New York, ha nel gruppo McGraw-Hill il maggior azionista ed è attiva nell'editoria e nei servizi finanziari. Mentre Fitch fa capo ad un gruppo franco-statunitense con vasti interessi nella finanza ed è controllata da due azionisti forti (il gruppo francese Fimalac e il gruppo editoriale Hearst), le altre due sorelle “sono di tutti e di nessuno”.
Come scriveva Fabio Pavesi (Sole 24 ore) in un report dello scorso anno:
“Vere e proprie public company. In S&P c'è un azionista forte, cioè la McGraw-Hill, ma il resto dell'azionariato è diffuso come del resto in Moody's. E qui arriva la sorpresa. Il primo azionista di Moody's, con il 13,4% del capitale, risultava a fine dicembre del 2009 secondo rilevazioni Reuters, Warren Buffett, il guru di Omaha con il suo fondo Berkshire Hathaway. Al secondo posto con il 10,5% ecco comparire Fidelity uno dei più grandi gestori di fondi del mondo. E poi è un florilegio di gente che di mestiere compra e vende titoli: si va da State Street a BlackRock a Vanguard a Invesco a Morgan Stanley Investment. Insomma i più grandi gestori di fondi a livello mondiale sono azionisti di Moody's. E guarda caso lo stesso copione si riproduce in Standard&Poor's: ecco nell'azionariato comparire in evidenza, a fine 2009, i nomi di Blackrock, Fidelity, Vanguard. Gli stessi nomi. Il che pone una domanda. Che ci fanno gestori di fondi nel capitale di chi dà i voti ai bond emessi dalle stesse società che abitualmente un gestore compra e vende? La prima risposta è semplice: si sta lì perché si guadagna e perché i fondi in America sono da sempre gli investitori istituzionali per eccellenza. La seconda è più maliziosa, ma indotta da questa strana presenza. Stare nel capitale di chi determina i destini di una miriade di società magari è utile per avere accesso a informazioni privilegiate.
Le ricadute economiche sono tutt’altro che trascurabili. Proseguiva Pavesi:
“Basti vedere Moody's che essendo quotata a Wall Street consente maggiore visibilità sui numeri. Ebbene Moody's, solo nel 2009, per ogni 100 dollari che ha fatturato ne ha guadagnati sotto forma di utile operativo ben 38.
Su 1,8 miliardi di ricavi fanno un margine di 680 milioni. Ma attenzione quel 38% di redditività è un mix tra i servizi di analisi e quelli di assegnazione dei rating. Solo sul mestiere più remunerativo, quello appunto dell'assegnare pagelle, la redditività balza al 42% sui ricavi.
Un exploit il 2009? Niente affatto. Gli anni d'oro sono stati altri: nel 2007 il margine operativo era al 50% dei ricavi e nel 2006 si è toccato il picco del 62% di utili operativi sul fatturato. Un'enormità: 1,26 miliardi di margine su due miliardi di fatturato. Se poi si va all'utile netto la musica non cambia. Dal 2005 al 2009 Moody's ha generato profitti per complessivi 2,8 miliardi (e le altre sorelle non sono da meno).”
Tornando alle evidenze raccolte dal comitato senatoriale Usa,  colpisce come le agenzie sotto esame abbiano ignorato negli anni passati gli allerta interni sul progressivo deterioramento del mercato dei mutui. Da quanto emerge dalle corrispondenze interne, le agenzie avrebbero potuto correggere la rotta ben prima del declassamento del luglio 2007, ma non lo hanno fatto. Ex dipendenti di Moody’s e S&P hanno ammesso come le due agenzie fossero tutt’altro che insensibili alle pressioni delle banche che spingevano per ottenere alti rating, minacciando di interrompere la collaborazione in caso di valutazioni non gradite. Davanti alla prospettiva di perdere clienti “pesanti”, le agenzie di rating non hanno esitato a produrre report accomodanti, specifica l’indagine senatoriale.
Il portale paneuropeo di informazione Presseurop, attingendo a svariate fonti internazionali (Financial Times Deutschland, Libération e Pùblico), fornisce utili elementi al dibattito sulle criticità connesse alle agenzie di rating, attori ricercati quando serve un giudizio per accedere al mercato, criticate quando rivedono al ribasso i loro rating , aumentando il costo di approvvigionamento dei capitali. Problematiche colte appieno negli Stati Uniti, dove, oltre la citata inchiesta senatoriale, la Commissione per i Titoli e gli Scambi (Sec) ha stabilito nuove regole per rafforzare i controlli interni, tutelare dai conflitti di interesse, definire standard professionali per gli analisti e favorire la diffusione dei dati sulla metodologia adottata per i giudizi e la comunicazione al pubblico dei risultati dei rating.
La reazione europea è stata, come spesso accade, più lenta. Commenta il quotidiano portoghese Pùblico: “Considerata la debolezza dell'Europa, è assolutamente normale che le agenzie gonfino i muscoli e cerchino di spingere al limite la vulnerabilità dell'euro…Non si tratta soltanto delle difficoltà del Portogallo nel raggiungere gli obiettivi fissati… Le agenzie si atteggiano ad avvoltoi pronti ad avventarsi sulla moneta unica agonizzante. L'Europa, incapace di tenere loro testa, sta offrendo al mondo una nuova dimostrazione del suo stato confusionale, reagisce soltanto quando si ritrova alle strette”.
Di diverso tenore il commento dell’edizione tedesca del Financial Times: “Da molto tempo si rimprovera alle agenzie di non essere state capaci di prevedere – o di averlo fatto in ritardo – fallimenti clamorosi come quello di Lehman Brothers…Ed ecco che, improvvisamente queste agenzie sarebbero afflitte da iperattivismo catastrofista. In ogni caso, un cosa è certa: ogni volta che hanno abbassato un rating, i fatti hanno dato loro ragione”.
Analisi contestata da Jean Quatremer (Libération) che ribalta causa ed effetto: “Spesso queste agenzie seguono le paure del mercato, ma talvolta le anticipano, creando delle previsioni che si autoavverano. Infatti il declassamento obbliga gli investitori a vendere per prudenza, cosa che fa scendere il valore delle obbligazioni e conferma i timori del mercato in un crollo del debito… i declassamenti, che ratificano tanto i timori dei mercati quanto quelli che provocano, hanno un effetto diretto sugli investitori, che chiedono automaticamente dei tassi di interesse più alti per garantirsi dal rischio supplementare. Soprattutto in un mercato del debito molto integrato come quello dell'euro, questi declassamenti hanno un effetto destabilizzante sull'insieme degli altri paesi, compresi quelli con i rating migliori. In particolare, perché le loro istituzioni finanziarie possiedono titoli del debito di tutti i paesi dell'euro e di conseguenza un declassamento ha automaticamente ripercussioni anche sulla loro solvibilità.
Tuttavia le agenzie di rating sono state incapaci non solo di vedere l'avvicinarsi della crisi americana dei subprime nel 2007, tutti prodotti dotati di una tripla A fino al giorno del loro crollo, ma anche di prevedere la crisi del debito sovrano della zona euro, come sottolinea il Fondo Monetario Internazionale. Un errore che cercano di far dimenticare con i loro continui declassamenti”. (A cura di Fabio Lucchini)
 

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