Foreign Policy, agosto 2011,
Scomparso dalla cronaca per entrare nella triste storia dei disastri nucleari, l'incidente di Fukushima ha cambiato radicalmente l'atteggiamento nei confronti dell'energia atomica di un paese pragmatico come il Giappone. Il primo ministro Naoto Kan si è dichiarato favorevole a un eventuale abbandono del nucleare, riecheggiando un sentimento diffuso nell'opinione pubblica nazionale. Tuttavia, l'attuale incertezza e le future scelte di Tokio avranno conseguenze rilevanti, ben oltre i confini giapponesi. Se alla chiusura degli impianti nucleari civili del Giappone non corrisponderà un contestuale inasprimento dei controlli anti-proliferazione a livello internazionale, dobbiamo prepararci a vivere in un mondo più pericoloso che in passato. A sostenerlo, dalle colonne di Foreign Policy, è Henry Sokolski, direttore esecutivo del Nonproliferation Policy Education Center di Arlington, Virginia. Un esempio? Il ministro della Scienza, Yoshiaki Takaki, ha dichiarato che il suo paese potrebbe bloccare lo sviluppo dei reattori veloci auto-fertilizzanti, alimentati con plutonio. Sembrerebbe una buona notizia per i fautori della non-proliferazione, ma c'è di più: se l'incidente di Fukushima ha ridotto la domanda interna di energia nucleare, ha d'altro canto indotto le imprese del Sol Levante ad aumentare l'export di tecnologia atomica. La stessa logica perversa si applica a Europa e Stati Uniti. La riduzione della domanda mondiale di impianti nucleari ha spinto le aziende del settore a gettarsi nei rischiosi mercati mediorientali e asiatici. Come l'esperienza di India, Iran, Iraq, Corea del Nord e Siria insegna, nelle aree di crisi geopolitica il passaggio concettuale da nucleare civile a militare è piuttosto rapido. Davanti a una simile prospettiva, urgono regole internazionali sempre più stringenti. In passato, si è rivelato in tal senso decisivo il contributo del Nuclear Suppliers Group, un cartello composto dagli stati "produttori" per regolare le esportazioni di materiale e tecnologie nucleari. Il problema è che ora il gruppo include anche Cina e Russia, assai riluttanti a imporre regole e vincoli.
E allora, si domanda Sokolski, che altro possiamo fare per evitare che determinati paesi acquisiscano materiali e tecnologie per sviluppare la bomba atomica tramite i canali commerciali? L'atteggiamento giapponese sembra positivo. Sta agli altri attori principali del Grande Gioco nucleare fare la propria parte. Sia George W. Bush che Barack Obama hanno posto una serie di condizioni alla cooperazione nucleare statunitense con i paesi terzi. Il cosiddetto Gold Standard richiede ai potenziali Stati clienti di rinunciare alla produzione di combustibile nucleare e di accettare accurate procedure di ispezione internazionale. Un approccio efficace, che il Giappone farebbe bene a mutuare.
E' importante che sia la principale potenza nucleare a tracciare la via. Gli Usa hanno concluso nel 2009 un accordo nucleare restrittivo con gli Emirati Arabi Uniti, ma non è affatto garantito che un medesimo atteggiamento virtuoso verrà preso a modello per il futuro. L'amministrazione Obama sta approfondendo la cooperazione nucleare con Giordania, Arabia Saudita e Vietnam e nessuno può garantire che le condizioni del Gold Standard siano imposte anche a questi Stati. Anzi, i segnali sin qui raccolti sono tutt'altro che incoraggianti. Non si tratta di un aspetto secondario, poiché l'atteggiamento di Washington e Tokyo avrà ripercussioni anche sulla linea di condotta di attori importanti quali Francia, Germania e Corea del Sud.
La moral suasion nippo-americana avrebbe comunque meno effetti sulla Russia, recalcitrante rispetto a un rafforzamento delle regole in tema di export nucleare. Ciò non toglie che Mosca necessiti della tecnologia occidentale per garantire la sicurezza dei propri reattori e che questa circostanza la costringa di fatto ad ammorbidire la propria posizione. Anche la Cina difficilmente accetterà vincoli troppo onerosi ai propri commerci, ma Pechino dovrà attendere almeno una decade prima di diventare uno dei maggiori esportatori di materiale e tecnologia nucleari.
L'impressione, conclude Sokolski, è che il percorso verso l'innalzamento degli standard internazionali di sicurezza nucleare sarà lungo e difficoltoso, anche se non mancano timide aperture. Questa primavera il Comitato degli Affari Esteri della Camera dei Rappresentanti Usa ha approvato una proposta di legge bipartisan che esorta il Dipartimento di Stato ad applicare il Gold Standard a tutti i futuri accordi di cooperazione nucleare, rendendo inoltre più complicato il riciclo e l'esportazione di materiale nucleare esausto. In prima linea contro questa svolta le società nucleari statunitensi e quelli francesi con sede negli Usa, ma anche, e questo sorprende, l'amministrazione in carica. Nonostante l'impegno retorico per contenere la proliferazione, la Casa Bianca sembra aver attribuito la priorità agli accordi commerciali in tema nucleare con i paesi emergenti. Già trapela la notizia di un'imminente intesa in materia tra Washington e i sauditi.
Non manca chi critica apertamente la proposta di imporre regole più stringenti sul commercio nucleare, sostenendo che i paesi clienti sarebbero così indotti a rivolgersi a quegli Stati meno pignoli nell'applicarle o del tutto riluttanti a farlo. Si tratta dello stesso genere di argomentazioni opposte trent'anni fa davanti all'ipotesi di una normativa più severa in tema di cooperazione nucleare civile, proposta dal Congresso Usa in seguito all'assistenza prestata dal Canada all'India nella costruzione della prima bomba atomica di New Delhi. La svolta decisa allora dal Congresso Usa condusse all'inasprimento delle norme sull'esportazione nucleare contenute nel Nuclear Non-Proliferation Act del 1978 - le stesse norme che il Nuclear Suppliers Group avrebbe poi imposto a livello internazionale. Un esempio di come la politica, se lo vuole, può incidere sulla sicurezza internazionale. Oggi, dopo Fukushima, i tempi sono maturi per una nuova presa di coscienza. (A cura di Fabio Lucchini)