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RIVOLTE E BIG SOCIETY

ResPublica, ottobre 2011,

Quello che segue è un estratto dell’intervento di Phil Champain (Director of Programmes dell’Ong International Alert) all’evento “Has the ‘Big-Society’ missed a trick? Lessons for community from international peacebuilding”, organizzato dal think tankResPublica in occasione della Conference laburista tenutasi a Liverpool dal 25 al 29 settembre.

I recenti disordini a Londra e in altre città inglesi hanno colto molti di sorpresa, non solo gli abitanti di quei contesti urbani che più ne hanno sofferto, ma anche chi si è abituato a considerare il Regno Unito come un angolo di pace e a stabilità. Gauri Pradhan (portavoce della Commissione nazionale per i diritti umani in Nepal) ha sottolineato dalle colonne del Kathmandu Post1 che i riots di agosto “non solo hanno distrutto la pace e l’ordine londinesi, ma inquietato la coscienza collettiva globale,  affascinata dal progresso, dalla sicurezza e dalla prosperità da sempre associati alla capitale britannica.”

Pradhan ripercorre i disordini, più o meno gravi, susseguitisi in molte altre città nel corso dell’ultima decade , citando i riots di Mumbai del 1992-93, di Los Angeles (1992), di Jakarta (1998), di Goteborg  e Bradford (2001), di Sidney (2005), di Nairobi e della Grecia (2008), dello Xinjiang (2011). Ciò che interessa gli osservatori che, come Pradhan, stanno lavorando per costruire la pace nei loro travagliati paesi, è l’analisi di esperienze problematiche vissute in altri contesti per ricavare utili strumenti d’azione. “Se non impariamo rapidamente qualcosa da vicende come quelle verificatesi nelle città inglesi, rischiamo di trovarci completamente inermi di fronte allo scoppio di nuove violenze urbane.”
In Occidente spesso non si è inclini a prendere lezioni. Si è portati a ritenere, forti delle lezioni di Thomas Hobbes sul superamento dello stato di natura, che i conflitti violenti nel corpo sociale interessino ormai solo i paesi in via di sviluppo. Secondo questa impostazione, la violenza diffusa appartiene al passato del mondo occidentale. Infatti, nei paesi generalmente considerati “avanzati” esistono condizioni tali da consentire ai cittadini e alla società nel suo insieme una più agevole gestione e prevenzione dei conflitti. Se si confronta la situazione britannica, e occidentale, ad altri contesti violenti e instabili, lo scarto appare evidente. Nel mondo anglo-sassone ed europeo sembra normale poter contare su un sistema giudiziario affidabile, forze di polizia e sicurezza disciplinate e professionali, prospettive occupazionali ed esistenziali decenti. I cittadini della parte ricca del mondo possono trovare riparo in un alloggio, camminare tranquilli per le strade e scegliere i politici che li governeranno.
Certo, il declino dei sistemi di welfare e l’aggravarsi della crisi economica stanno modificando quest’ordine di cose. Non per tutti risulta ancora valido il ragionamento proposto in precedenza, soprattutto nei mesi che stiamo vivendo. Ciò non toglie che l’instabilità e la precarietà sperimentate nelle nostre società, a prescindere dalle percezioni, non possono essere paragonate alle situazioni tragicamente disagiate che vivono milioni di individui nel resto del mondo, dove quotidianamente si cerca di gestire conflitti di entità e intensità ben maggiore. Talvolta con esiti positivi. Ciò considerato, davanti a uno scenario in rapida trasformazione, l’idea di prendere spunto dalle prassi adottate dagli attori impegnati nel peacebuilding nelle aree di crisi (Nepal, Sri Lanka, Repubblica Democratica del Congo, Kirghisistan, solo per citarne alcune) rappresenta forse più di una provocazione intellettuale. Dopo tutto, chi meglio di coloro che operano da tempo in teatri confusi, dinamici e incerti può suggerire soluzioni concrete per gestire i fenomeni di conflittualità sociale che interessano l’Europa e da ultimo gli Stati Uniti?
Seguendo i recenti riots inglesi molti commentatori hanno giustamente consigliato di non giungere a considerazione affrettate, scordando di porre la questione fondamentale: Perché è successo?
Nei contesti tradizionali di attività del peacebuilding posto in essere dalle organizzazioni internazionali e dalle Ong nelle aree più conflittuali del mondo,  la sfida di arginare la violenza è più grande, la necessità di fornire una risposta alle contraddizioni sociali più urgente e la pressione su chi lavora per trovare soluzioni condivise più intensa. Come operano in simili ambienti? Quali approcci adottano? Come si muovono tra la confusione e l’incertezza?
E’ difficile in poche righe rendere giustizia all’enorme lavoro da chi si impegna per la pacificazione e la ricomposizione dei conflitti nei teatri di crisi più caldi, così come appare arduo elencare puntualmente gli aspetti cruciali scaturenti dall’enorme serbatoio di esperienze maturate in ambito internazionale. Ciononostante, è possibile isolare tre principi cardine del lavoro di mediazione in ambienti conflittuali, utilmente applicabili per comprendere le cause e gestire le conseguenze delle eruzioni di violenza sociale che si sono recentemente abbattute sull’Europa.

Primo principio: Quando si crede di aver capito, forse ci sta sbagliando

Quando ci si rapporta con situazioni di tensione e disagio sociale è importante porsi le domande giuste come condizione imprescindibile per ottenere le risposte più adeguate. Trovare la domanda giusta risulta particolarmente complicato, soprattutto in contesti confusi e imprevedibili dove la pressione sui leader perché prendano decisioni rapide rischia di farsi insostenibile. Sono necessari competenza ed equilibrio per evitare che il  giudizio sia condizionato dalla concitazione del momento. Come ha sottolineato Dan Smith in un articolo scritto subito dopo i riots britannici, una profonda comprensione dell’accaduto non sarà il prodotto dell’intuizione di un intellettuale, della penna di un articolista o della brillante prosa di uno scrittore. Questi saranno al più i pezzi di un puzzle, le sfumature di un quadro interpretativo composto dal bilanciamento dei diversi punti di vista in dialogo tra loro

Secondo principio: Credere nella forza del dialogo

“Dialogo” è un termine usato e abusato, ma in contesti dominati dalla paura della violenza esso assume  un valore specifico, sovente poco compreso. Nelle situazioni a rischio, la possibilità di dialogare presuppone la buona preparazione dei facilitatori (che include competenze analitiche e di ricerca), il coinvolgimento delle persone giuste (i responsabili delle violenze, le vittime e chi si frappone tra loro alla ricerca di una soluzione) e la predisposizione di un luogo di incontro diverso dal teatro del conflitto o dello scontro. Infine, è importante che il soggetto, o i soggetti, che assumono su di sé l’onere della mediazione evidenzino alle parti in causa anche il più impercettibile dei progressi nella traiettoria di pacificazione e ricomposizione. Si tratta di un aspetto fondamentale per evitare che la frustrazione dello stallo pregiudichi l’esito del processo.

Terzo principio: Nutrire il processo nel tempo

Nelle dinamiche sociali non esistono tagli netti. Trovare soluzioni a problemi radicati in contesti complessi, confusi e incerti richiede tempo. I peacebuilder spesso parlano dell’importanza di porsi davanti al conflitto con una “mentalità da maratoneta”. Dopo aver proposto le domande giuste e in seguito all’innesco del processo di pacificazione e ricomposizione, è cruciale che l’allentamento delle tensioni sia sostenibile nel tempo.

Si è assistito nelle lunghe settimane post-riots a una pletora di opinioni (dai giornali alle televisioni, passando per i blog e giungendo all’opinione pubblica) tese a svelarne il significato recondito.  Si è parlato di criminalità predatoria, di sciacallaggio, di lassismo dei genitori, di reazione violenta alla politica dei tagli del governo Cameron-Clegg. La risposta dei partiti politici britannici è stata egualmente elaborata e a vasto raggio, ma in fondo generica, sullo fondo del fervente dibattito intorno alla governance locale e comunitaria.
Alla luce sinistra della rivolta d’agosto, l’ormai celebre Big Society (il cavallo di battaglia elettorale dei conservatori britannici) sembra assumere un significato nuovo. In seguito ai netti tagli alla spesa pubblica decisi da Downing Street (una tendenza europea comunque) e nel clima d’inquietudine che incombe sulle comunità locali dopo la prova dei riots, la secolare coesione della società britannica è messa a dura prova. Un chiaro monito per il resto d’Europa. Il futuro che si prepara suggerisce che il conflitto potrebbe tornare a giocare un ruolo nella nostra vita sociale e pubblica. E un ruolo non sporadico. Non pare azzardato ipotizzare che le prassi preventive e le tecniche di gestione delle crisi, del resto sempre più studiate nei corsi universitari, non si applicheranno soltanto alle remote aree di crisi del sud del mondo, ma (con i dovuti adattamenti) anche ai contesti urbani della vecchia Europa. E’ tempo di attrezzarsi. La casistica su cui riflettere non manca. (A cura di Fabio Lucchini)


Phil Champain è Director of Programmes presso International Alert, Ong impegnata nel peacebuilding

 

Data:





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