Critica Sociale, giugno 2012,
La Grande Recessione seguita alla crisi finanziaria è stata la prima accentuata contrazione economica su scala globale dalla seconda guerra mondiale in avanti. La crisi, tutt'altro che superata, della finanza globale prosegue nel dispiegare i suoi effetti e minaccia di influenzare negativamente la distribuzione dei redditi familiari e di aumentare gli indici di disuguaglianza e povertà. Lo rileva Andrea Brandolini (Servizio Studi di struttura economica e finanziaria della Banca d'Italia) nel rapporto The Great Recession and the Distribution of Househld Income. Se l'impatto di breve periodo della recessione sui redditi familiari medi, sulla disuguaglianza nella loro distribuzione e sui tassi di povertà relativi è stato nel complesso contenuto, il prolungarsi della sofferenza economica solleva ombre preoccupanti sul futuro dei sistemi occidentali, Italia in primis.
La situazione del nostro Paese, dati alla mano, appare particolarmente preoccupante. Un recente e documentato lavoro di ricerca analizza il passato e riflette con una buona dose di preoccupazione sul presente e il futuro del benessere degli italiani. Ne In Ricchezza e povertà. Il benessere degli italiani dall'Unità a oggi, Giovanni Vecchi, docente di economia politica all'Università Tor Vergata di Roma, propone una storia d'Italia vista secondo la ricchezza dei suoi abitanti, scritta analizzando ben 20mila bilanci familiari e confrontandoli con indagini dell'Istat e della Banca d'Italia. Il quadro che emerge è chiaro: l'Italia è un paese cresciuto nei decenni passati a ritmi sostenuti ma che da tempo sta rallentando e oggi rischia l'involuzione.
Per quanto riguarda il Prodotto interno lordo (Pil), questa tendenza è in atto già da due decenni: se dal 1861 il Pil per abitante italiano è aumentato di ben tredici volte, dal 1991 circa avanza alla velocità dello 0,6% all'anno, in un contesto in cui i redditi più alti sono gli unici a crescere sensibilmente, a fronte di un sostanziale blocco di quelli più bassi e di un galleggiamento di quelli medi. Oggi l'indice di disuguaglianza dei redditi, dopo essere precipitato dal 40% del 1971 a meno del 30% nel 1982, è risalito e oscilla fra il 33 e il 35%. Inoltre, chi è povero sembra condannato alla povertà, visto che il 90% dei casi è cronico, e oggi sia sta diffondendo una strisciante percezione di insicurezza anche fra chi può fare affidamento su di un reddito. Tempi decisamente diversi dal 1989, quando l'indice di povertà assoluta dell'Italia scese al 3%, il livello più basso mai raggiunto[2].
Di particolare interesse l'analisi che Vecchi dedica alla vulnerabilità alla povertà, che coglie un aspetto cruciale dell'insicurezza esistenziale che attanaglia buona parte delle nostre società, ossia la probabilità di diventare poveri in futuro. E' vulnerabile non solo chi è già povero, ma anche chi rischia di diventarlo. Il carattere innovativo del concetto risiede nel fatto che la sua misurazione si basa, allo stesso tempo, sul livello attuale dei redditi delle famiglie e sul rischio che questo si riduca in futuro a causa dell'incertezza dell'ambiente economico. Chiaramente, all'alba del 2012, ci muoviamo in una fase storica dove la stragrande maggioranza degli individui vive il proprio futuro occupazionale ed esistenziale come un grande interrogativo. L'incertezza rende gli italiani inquieti e limita la loro capacità di godere i livelli di benessere comunque raggiunti e certificati dai dati relativi al lungo periodo (i 150 anni di storia unitaria nazionale).
Si potrebbe sostenere che l'Occidente goda comunque ancora di relativa agiatezza, soprattutto se si confrontano le condizioni dei cittadini europei e nordamericani con le misere moltitudini asiatiche e africane. Sono forse eccessive le attuali percezioni di insicurezza? Non coincidono con la realtà? Dati alla mano, non sembra il caso di eccedere nelle rassicurazioni.
Se è vero che la povertà assoluta nel nostra Paese è diminuita tra il 1985 e il 2001, non bisogna dimenticare la persistenza di sacche di povertà cronica. Si tratta della forma più odiosa di indigenza, quella in cui alle sofferenze causate dalla deprivazione estrema si aggiungono l'esclusione sociale e la mancanza di una speranza di riscatto. Inoltre, da un'attenta analisi dei dati proposti da Vecchi, si evince come la salute economica delle famiglie italiane nel periodo considerato non sia rivelata solidissima. Le stime mostrano che la vulnerabilità alla povertà si va diffondendo su ampia scala, dato che già agli inizi degli anni novanta del secolo scorso riguardava quasi la metà della popolazione e considerando che è ragionevole supporre che la situazione volga al peggio, soprattutto alla luce della cronica stagnazione del Pil italiano e degli effetti persistenti della crisi. Aldilà dell'apparente normalità che permea la vita del nostro Paese come di altre economie mature in Europa e Nordamerica, aumenta il timore che i tracolli degli indici di borsa, dovuti alla sfiducia dei mercati o (secondo altre interpretazioni) alla deliberata ostilità degli speculatori, si traducano in un sensibile peggioramento del tenore di vita generale. Aumenta il senso di insicurezza esistenziale, insieme alla frustrazione, alla paura, al risentimento. Non è certo un fenomeno inedito, ma c'è una novità. Se nell'ultimo ventennio molti hanno identificato nel diverso (l'altro, lo straniero, l'immigrato) l'origine del proprio malessere sociale, reclamando dallo Stato protezione e quindi l'innalzamento dei livelli repressivi, ora è proprio lo Stato, " i rappresentanti del popolo", e con essi la grande finanza a essere nel mirino, a rischiare di assurgere allo sgradito ruolo di capro espiatorio.
Negli anni novanta del secolo scorso, la maggiore preoccupazione delle nostre collettività, nel complesso benestanti e convinte di rimanerlo a lungo, era rappresentata dalla piccola criminalità predatoria. Negli anni duemila, in seguito agli avvenimenti epocali del settembre 2001, il rischio indeterminato e apocalittico del terrorismo aveva innescato sentimenti di confusa irrequietezza nei confronti del diverso e della sua presunta intenzione di condizionarci e stravolgere, mediante la paura, le nostre vite sino ad allora tranquille. Ora, all'inizio di un nuovo decennio, quelle inquietudini non sono scomparse, ma risultano quasi trascurabili di fronte all'ampliarsi dell'area grigia della precarietà esistenziale. Ciò che pareva garantito (lavoro, pensioni, diritto di cura) non lo è più o è presumibile che non lo sia in futuro. Già le fasce più deboli della popolazione subiscono il peso del declino economico, ma anche la classe media inizia a impoverirsi.
Mentre cresce il fronte dell'insoddisfazione sociale, come detto cambia anche l'obiettivo degli strali popolari: non più l'immigrato delinquente e riottoso all'integrazione, ma i "poteri forti", incapaci di gestire il sistema globale e le sue risorse finanziarie e tecnologico-ambientali (i ripetuti sversamenti di petrolio in mare e la recente catastrofe di Fukushima aggiungono un alone di inquietudine a un quadro già a tinte fosche). In ultima analisi, la pubblica opinione globale non ha dubbi sull'identità dei responsabili dell'instabilità che ci minaccia.
Gli Indignados, il movimento Occupy e i rivoluzionari del Nordafrica. Kurt Andersen, nello spiegare la scelta del prestigioso settimanale statunitense Time, che ha indicato nella figura del contestatore (The protester) il personaggio dell'anno per il 2011, evidenzia i numerosi punti di contatto tra le avanguardie della protesta che si va diffondendo a livello globale. Ovunque sono molto giovani, appartenenti al ceto medio e con un buon livello di istruzione. Quasi tutte le proteste scoppiate negli ultimi mesi sono iniziate spontaneamente, senza molto incoraggiamento da parte dei partiti politici o dei gruppi di opposizione strutturati. In tutto il mondo, i contestatori del 2011 ritengono che i sistemi politici dei loro Paesi e le diverse economie siano cresciuti in maniera disfunzionale e corrotta - manovrati dai ricchi e dai potenti, decisi a impedire ogni cambiamento reale. "Democrazie con la d minuscola". Due decadi dopo il collasso finale del comunismo e del socialismo reale, i contestatori sono convinti di vivere il fallimento di un ipercapitalismo gonfiato in modo abnorme e auspicano una terza via, un nuovo contratto sociale.
Oggi il furore della pubblica opinione non si scaglia più contro il diverso, l'immigrato, l'islamico, accusato di mettere a repentaglio la sicurezza materiale conquistata dal "mondo avanzato", per il semplice motivo che quella sicurezza non esiste più, travolta dall'avidità, dalla miopia politica, ma anche dai limiti intrinseci di un modello di sviluppo socio-economico ritenuto invulnerabile. Additare nuovi capri espiatori (gli speculatori, i politici, le banche) serve a poco, se non a fomentare la rabbia sociale, a stressare pericolosamente i nervi già tesi della coscienza collettiva. Come ha insegnato lo straordinario e terribile ventesimo secolo, l'unica via per uscire dalla crisi complessiva che sta investendo il nostro mondo è cercare di comprendere, evitare semplificazioni e operare per il necessario cambiamento. Se le risorse economiche declinano, lo stesso non può dirsi del capitale umano, sostenuto da un livello di istruzione e di accesso agli strumenti tecnologici senza eguali nella Storia. Il crescente bisogno di partecipazione e coinvolgimento nella sfera pubblica avvertito da una nuova generazione di ragazzi "costretti" a riscuotersi dall'apatia del benessere è la miglior speranza per il futuro. Una prospettiva che deve peraltro essere sostanziata dall'impegno di tutti. L'intelligenza collettiva, e non la cultura del risentimento, è l'unico antidoto efficace contro la cinica e disfunzionale irrazionalità che ci ha condotto all'attuale situazione.(Fabio Lucchini)
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