ha lanciato la scorsa primavera per analizzare cause, manifestazioni e prospettive dell'ondata contestataria che negli ultimi mesi ha investito l'Europa. Un progetto costruito su una serie di seminari che vedranno la partecipazione di studiosi e analisti e che daranno vita a una pubblicazione. L'iniziativa ruota intorno ad alcuni quesiti di fondo: Quali sono i tratti distintivi delle forze politiche tradizionali, di quelle che si richiamano al populismo e di quelle radicali? Quali sono le condizioni che consentono al populismo e al radicalismo di prosperare? Sono in grado i partiti tradizionali di assorbire le spinte contestatarie e di incanalarle a proprio vantaggio? E, soprattutto, quali sono le implicazioni per i sistemi liberaldemocratici del Vecchio Continente?
Se l'iniziativa è in itinere ed è quindi prematuro presentarne le conclusioni, risulta tuttavia interessante riportare alcuni dei contributi che gli analisti del think tank londinese, tra i più influenti nella galassia laburista, hanno dedicato alla peculiare situazione italiana. Nel nostro Paese le correnti contestatarie, fomentate dal protrarsi della crisi economica e dall'incapacità mostrata dalla "politica tradizionale" di far fronte alle sue ricadute sociali, stanno ottenendo significativi successi.
L'Italia del 2012 presenta un panorama politico screditato dagli scandali e dominato da un governo tecnocratico, auspicato e favorito dalle istituzioni Ue, che impone scelte impopolari e dolorose a fronte della più che percepita incapacità della politica nostrana di risanare gli squilibri strutturali che affliggono il Paese.
Una novità? No, piuttosto un ricorso storico, sostiene Marco Giuli, ricercatore al College of Europe Foundation. L'oggi ricorda il fatidico 1992, quando il vuoto lasciato dai partiti della Prima Repubblica, travolti dalle vicende di Tangentopoli, venne riempito dall'ascesa della Lega Nord a livello regionale e di Silvio Berlusconi a livello nazionale, con programmi liberali, liberisti e riformisti, che miravano a liberare l'Italia da decenni di dirigismo economico, corruzione e lievitazione del debito. Mentre la retorica moralizzatrice e il sostegno ai magistrati impegnati nel disvelamento delle nefandezze del sistema dominavano il dibattito pubblico, il populismo berlusconiano attirava la maggioranza silenziosa centrista che aveva consentito alla Democrazia Cristiana di governare per decenni il Paese. Il risultato elettorale del 1994 e la nascita della Seconda Repubblica ne furono l'inevitabile conseguenza.
Secondo Giuli, a un ventennio di distanza staremmo assistendo a uno spettacolo simile. Le elezioni locali della primavera 2012 hanno certificato l'abilita dell'ex comico Beppe Grillo e del suo Movimento Cinque Stelle (M5S) di catturare la crescente indignazione contro i partiti politici che hanno dominato, mediante camaleontiche trasformazioni, la Seconda Repubblica. E questo aldilà di ogni incardinamento ideologico. Se l'ambientalismo e la critica serrata alla corruzione, tematiche che l'M5S propugna grazie a un uso magistrale dei social media, appaiono schematicamente "di sinistra", meno progressiste risultano l'ostilità alla globalizzazione e la tentazioni di uscita dall'euro.
Ma torniamo alla presa che il populismo anti-sistemico esercita in Italia nei momenti di crisi, nel 1992 come nel 2012. L'indignazione contro la partitocrazia è stata una costante della narrativa berlusconiana e leghista degli ultimi venti anni. L'anti-politica, che molti attribuiscono oggi a Grillo, ha costituito uno degli strumenti più incisivi dell'armamentario del Cavaliere, consentendogli di conquistare i cuori e le menti della piccola borghesia (in special modo nel nord produttivo del Paese) che, paradossalmente, si è sempre ritenuta danneggiata da quella stessa classe dirigente di cui aveva costituito la base elettorale nelle prime quattro decadi di vita repubblicana. L'aggressività con cui Grillo utilizza i nuovi media ricorda l'insuperabile capacità dell'ex premier di "bucare lo schermo". Inoltre, i destinatari dei messaggi dell'MS5 non si discostano troppo da coloro che accolsero la discesa in campo del 1993/94. Oggi come allora, la classe media frustrata, disillusa e inferocita con la politica ufficiale si rivolge a chi promette la "rottura", anche se in maniera talvolta indefinita. Oggi come allora, i partiti tradizionali, o quel che ne resta, non sembrano attrezzati alla sfida. D'altronde, è sin troppo agevole denunciare il fallimento delle forze politiche che sostengono il governo Monti, al quale hanno delegato lo sgradito compito di agitare il fantasma del default e di chiedere sacrifici e rinunce a un Paese già gravato da lunghi anni di stagnazione economica e sotto-occupazione.
Oltre al M5S e all'incostante posizione espressa dall'Italia dei Valori (IDV), tra i più attivi oppositori dell'esecutivo vi è la Lega Nord, che dopo la fine dell'esperienza di governo è tornata al suo originario spirito contestatario. In seguito alle recenti vicende giudiziarie che hanno sporcato l'immagine del partito e accelerato il cambio al vertice, l'appeal leghista ha subito un duro colpo e le fortune elettorali ne hanno risentito. Tuttavia, come sostiene Duncan McDonnell dello European University Institute, il de profundis intonato da molti media appare quantomeno affrettato, poiché la Lega è tra le poche forze politiche italiane a poter contare su una chiara ideologia, una ben definita offerta politica e una strutturazione efficiente sul territorio. Tutti asset che mantengono un peso rilevante nella conquista del consenso. La Lega insomma non è morta, anzi potrebbe avvantaggiarsi del malumore crescente per ritornare in auge, facendo aggio sulla promessa di difendere i "ceti produttivi del Nord" colpiti anch'essi dai morsi della crisi e "vessati" fiscalmente dal governo dei tecnici sostenuto dai "partiti romani e dalle banche".
Ad ogni modo, attualmente è il M5S, e la gestione del suo impatto da parte dei partiti tradizionali, a costituire l'incognita più rilevante sulla scena politica italiana, soprattutto in previsione delle imminenti e delicate elezioni generali. Definire il movimento in termini di anti-politica è semplicistico, continua McDonnell. Il M5S si contrappone certamente ai partiti maggiori (pur essendo ormai considerato la terza forza elettorale nel Paese), al governo Monti e all'austerità che colpisce "i soliti noti". Dietro al suo successo, ci sono almeno cinque anni di intensa attività di mobilitazione dal basso rispetto agli argomenti più svariati (lo sviluppo sostenibile, la tutela dei beni collettivi, la trasparenza nella pubblica amministrazione, ecc.). Non è forse politica questa?
Il Movimento non sostiene che la politica sia sporca di per sé; piuttosto invita i cittadini a riscuotersi, a partecipare e a costringere le élite nazionali a rendere conto del proprio operato. Lo stile pungente e iconoclasta del leader carismatico, che a partire dal suo blog si scaglia da tempo contro una classe dirigente ritenuta inefficiente e corrotta, ha contribuito notevolmente al successo del movimento, ma non deve trarre in inganno. Il M5S non è anti-politica, ma pone una sfida propriamente politica ai partiti della declinante Seconda Repubblica e, in particolare, alla forza che i sondaggi indicano come la probabile vincitrice (relativa, non assoluta) della consultazione elettorale prossima.
Una sfida che il PD non vuole o non è in grado di raccogliere, trovandosi a giocare in difesa nella convinzione che questa sia la tattica migliore. Invece, proprio l'eterno attendismo, la timidezza programmatica, l'endemica divisione e la mancanza di riconoscibilità politica, rischiano di consegnare al centro-sinistra, qualunque sia la sua composizione, una inservibile vittoria di Pirro. Specialmente se non verrà cambiata l'attuale legge elettorale. Anche qui i partiti tradizionali stanno dando prova di indecisionismo e inconcludenza che non possono sfuggire ad elettori sempre più tentati di premiare chi contesta l'esistente. Se alle rivendicazioni e all'abilità comunicativa del Movimento Cinque Stelle non si opporranno contenuti credibili, è facile prevedere una nuova affermazione dei "grillini", con tutte le conseguenze del caso sulla governabilità. Tra qualche mese qualcuno potrà dolersi dell'affermazione del populismo, ma non certo dell'anti-politica. (Fabio Lucchini)