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POPULISMO E CRISI DELL'EURO

Secondo un mantra ricorrente, il populismo in Europa è dovuto alla crisi economica. Katynka Barysch, vice direttore  del Centre for European Reform (Cer), nutre dubbi in proposito. E’ vero, i partiti che possiamo definire populisti hanno acquisito maggiore importanza da quando il Vecchio Continente è stato investito dagli effetti della crisi finanziaria esplosa nel 2007-08, ma ciò non significa che una auspicabile ripresa economica determinerà necessariamente un ritorno alla rassicurante (per alcuni) logica bipolare che ha dominato la scena europea per un ventennio.

Cos’è il populismo? Dipende. Per chi lo considera di sinistra, i populisti sono coloro che chiedono tasse più alte, più welfare e un certo grado di protezione delle imprese in difficoltà. Per chi li considera di destra, i populisti si fanno portavoce, tra le altre cose, dell’opposizione all’immigrazione e al multiculturalismo nell’Unione Europea. E’ sempre più difficile incasellare il cosiddetto populismo nei tradizionali schemi politici, per i quali piuttosto rappresenta un minaccia seria e imminente.

Quello che i diversi populismi hanno in comune è la ferma volontà di smarcarsi dalle impopolari elites che ancora governano le capitali europee. Se queste ultime rappresentano ormai l’autoreferenzialità, l’inefficienza e la corruzione, i populisti ritengono di essere gli unici in grado di comprendere le istanze profonde della “società civile”. Secondo il loro punto di vista, la democrazia rappresentativa sta perdendo la sua reale funzione e sarebbe il caso di sostituirla con istituiti di democrazia diretta. Talvolta, come nella recente anedottistica italiana, con modalità discutibili (ci si riferisce a cervellotiche consultazioni web per espellere parlamentari…).

A prescindere dall’attuale fase di sovraesposizione, la crescita del populismo in Europa ha anticipato la crisi dell’euro di qualche anno. Basti pensare alle fortune elettorali di Jörg Haider in Austria, di Pim Fortuyn nei Paesi Bassi, dei gemelli Kaczynski in Polonia e di Jean-Marie Le Pen in Francia.

Due sono le tendenze che hanno eroso la fiducia nelle autorità e aiutato la causa anti-sistemica.

In primo luogo, la globalizzazione, l’immigrazione e il cambiamento tecnologico stanno rendendo la vita più complessa. I partiti di centro-sinistra non possono più promuovere credibilmente lavoro e sicurezza sociale per tutti, così come il centro-destra vede erodersi i suoi capisaldi storici; famiglia e responsabilità individuale. Mentre le tradizionali divisioni ideologiche perdono di significato, i partiti mainstream, in difficoltà, sono pronti a promettere qualsiasi cosa paia funzionare o abbia appeal sull’opinione pubblica. Così facendo risultano, da un lato, “più laici” e meno settari che in passato, ma dall’altro confondono il loro elettorato tradizionale che, incerto, spaventato e arrabbiato, trova attraente la semplicistica retorica populista.

Secondariamente, la diffusione di internet e dei nuovi media consente agli outsiders politici di mobilitare con maggior facilità le masse, aggregandole intorno a messaggi diretti e di sicuro impatto. I politici tradizionali che si affidano al web per controbattere finiscono spesso per risultare noiosi, perché le categorie della “vecchia politica” mal si attagliano ai nuovi mezzi di comunicazione. Risultano inoltre poco credibili quando cercano di adottare un nuovo linguaggio che contraddice la loro stessa storia politica.

Anche se non ne è la causa prima, la crisi finanziaria ha cionondimeno contribuito a preparare e consolidare il successo del populismo o, come qualcuno lo definisce, dell’antipolitica. Tuttavia, ogni paese europeo conserva le sue peculiarità. Il fenomeno si è dapprima manifestato con i risultati significativi ottenuti dalla forze anti-sistema nelle urne del Nordeuropa, dove peraltro hanno già iniziato a registrare qualche battuta d’arresto.  E’ ora il turno della Germania? Molti osservatori attendono con curiosità la performance degli euroscettici di Alternative für Deutschland alle politiche di settembre.

Se l’impatto del populismo nei paesi creditori del Nordeuropa e stato, e potrebbe essere, destabilizzante ma non disastroso, che dire del Sud debitore? In Grecia e Italia i populisti non rappresentato più frange estreme e marginali. A ben pensarci, a fronte di una disoccupazione che in Grecia si aggira intorno al 27% e con l’Italia immersa nella più lunga recessione dell’ultimo trentennio, come avrebbero potuto gli elettori non votare in massa per Syriza e per il Movimento Cinque Stelle? E infatti lo hanno fatto. Altrettanto comprensibile, ma molto meno giustificabile, il successo di Alba Dorata.

Alla Barysch non sfugge un punto interessante: Perché Spagna, Portogallo e Irlanda, parimenti flagellati dall’austerity, non hanno invece punito duramente i partiti tradizionali? Perché prima della crisi i loro sistemi non hanno avuto performance negative paragonabili alle situazioni greca e italiana. La corruzione e il nepotismo esistono ovunque, ma non ai livelli raggiunti a Roma e Atene. E’ difficile stupirsi del fatto che italiani e greci abbiano infine deciso di mandare un perentorio segnale di sfiducia ai propri governanti.

La beffa per greci e italiani sta nel fatto che il tanto atteso rinnovamento del sistema politico si stia concretizzando proprio nel momento in cui i due paesi necessiterebbero di governi stabili e forti. Invece, i continui ritardi nell’intraprendere un percorso di riforma hanno posto le basi per il successo della cosiddetta antipolitica, che, nella pratica, lungi dall’essere un immediato fattore di cambiamento, introduce ulteriori criticità suscettibili a loro volta di ritardare una soluzione della crisi politica ed economica. Anche chi ritiene che i populisti abbiano tutto l’interesse a perpetuare l’ingovernabilità potrebbe aver sbagliato i conti. Conquistati i consensi, anche i movimenti dell’antipolitica sono chiamati a dare risposte concrete ai cittadini e a raggiungere compromessi con le forze politiche tradizionali. L’alternativa è la rivoluzione o il radicale sovvertimento del sistema. O ancora, il ritorno all’irrilevanza politica. (A cura di Fabio Lucchini)
  

 

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