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DIRE ADDIO ALL'AUSTERITA'

Il recente paper di Olaf Cramme, Politics in the Austerity State, rappresenta un opportuno contributo al dibattito critico rispetto alle politiche dell’austerity e allo spazio politico che rimane per mettere in campo delle alternative. Il direttore di Policy Network evidenzia tre dimensioni chiave che condizionano l’agire politico al giorno d’oggi in Europa: l’integrazione economica globale; il quadro istituzionale europeo, con particolare riferimento alla moneta unica; il crescente disimpegno pubblico dalla politica e dall’ideologia.

Globalizzazione: la finanza dissestata e poi salvata
E’ ormai diventato chiaro che le promesse del progetto neoliberista sono state disattese. Del resto, già prima della catastrofe finanziaria del 2007-08, le economie avanzate stavano vivendo una fase di bassa crescita, stagnazione degli stipendi mediani e alti tassi di povertà e disoccupazione. Il tracollo finanziario ha distrutto valore e ha consolidato un’economia winner-take-all, nella quale i super-ricchi raccolgono la stragrande maggioranza dei benefici nei momenti buoni, mentre il bilancio pubblico è costretto a sopportare le conseguenze negative delle fasi recessive.

Se confrontata all’attuale scenario, la crisi del modello keynesiano negli anni settanta del novecento appare come una leggera battuta d’arresto. Piuttosto i difensori del modello da allora egemone nei paesi occidentali - fondamentalmente neoliberista - dovrebbero riflettere sul fatto che i paesi scandinavi (con la loro alta tassazione e la loro rilevante spesa sociale) stanno emergendo dalla crisi meglio dei paesi anglosassoni, ancora fortemente impregnati dall’eredità thatcheriana e reaganiana.

Ancora, la risposta dei governi occidentali alle crisi bancarie di pochi anni fa hanno determinato scelte politiche precedentemente considerate impraticabili, ma ora entrate a far parte del consensus politico-finanziario, quali i bailout bancari, l’abbandono degli obiettivi inflazionistici restrittivi e il quantitative easing.  In breve, le ultime decadi suggeriscono non solo che le alternative al neoliberismo debbano essere prese seriamente in considerazione ma anche che, se messa sotto pressione, l’ortodossia del laissez-faire che ha accompagnato le prime fasi della globalizzazione è disposta a far proprie opzioni politico-economiche in precedenza considerate eretiche.

Europe: sociale o monetaria?
La seconda dimensione chiave riguarda le economie europee e l’Europa stessa: nel dettaglio, le istituzioni europee e l’euro. E’ mancato un dibattito aperto e democratico sulla direzione dell’inevitabile cambiamento del sistema, con il risultato che gli Stati membri hanno subito, e subiscono, pressioni per accettare l’imposizione di requisiti pressoché insostenibili per ricevere aiuti da Bruxelles. Si tratta di requisiti oltretutto anacronistici, perché fondati su assunti relativi ai benefici dei mercati liberalizzati che la crisi globale ha spazzato via.
La politica monetaria dell’euro è stata costruita politicamente e la politica può ancora ricostruirla. L’impegno preso da Mario Draghi lo scorso anno (secondo il quale la Banca centrale europea avrebbe fatto qualsiasi cosa per salvare l’euro e l’Eurozona) dimostra la volontà di un certo attivismo politico della Bce; la questione per l’opinione pubblica europea è se le azioni politiche sul tavolo siano davvero le migliori disponibili. Per ora tutto tace e dunque la Bce continua a muoversi nel vuoto pneumatico della politica europea e degli Stati nazionali. Tutto ciò deve cambiare.

Debito e austerità
Il terzo argomento riguarda la camicia di forza in cui sono intrappolati gli esecutivi nazionali: non sembra più auspicabile il ricorso al debito per finanziare la spesa pubblica, ma i governi devono tirare la cinghia per garantire un futuro ai rispettivi sistemi economici. Questo è il mantra ricorrente, e applicato quasi ovunque in Europa con effetti drammatici sulla quotidianità di cittadini, famiglie e imprese. In realtà, esistono molti esempi storici di paesi in grado di sostenere un alto rapporto debito/Pil  per molto tempo. Inoltre, il tanto sbandierato studio di Carmen Reinhart e Kenneth Rogoff sull’impossibilità di crescere in presenza di un debito pubblico superiore al 90% è fondato su statistiche sbagliate.

Ma anche volendo ammettere che troppo debito faccia male, è possibile mettere in campo alternative quali la monetizzazione del debito, l’abbassamento dei tassi di interesse sotto l’inflazione, l’innalzamento dell’inflazione per ridurre il valore reale del debito. Tra le altre strade per raggiungere budget bilanciati vi sono: in primo luogo, il perseguimento di elevate entrate fiscali, ottenute tramite un inasprimento della tassazione sui redditi molto elevati e sui profitti delle grandi imprese, senza dimenticare la vexata quaestio dell’evasione; in secondo luogo, tagli di spesa che dovrebbero colpire i costi improduttivi e non gli investimenti, mentre la tanto decantata redistribuzione dovrebbe essere indirizzata ai giovani e ai meno abbienti piuttosto che sostenere ulteriormente le pensioni della classe media benestante dei baby-boomer.

In conclusione, un’alternativa all’austerity può avere successo politicamente? Nonostante le perplessità di Cramme, Jonathan Hopkin e Kate Alexander, ricercatori di Politica comparata alla London School of Economics, credono di sì. Se è vero, sostengono, che ripianare il debito pubblico è visto come un rimedio sgradito ma necessario, la mancanza di posti di lavoro è una preoccupazione ben più grande e immediata dello stato delle finanze pubbliche. Se l’accento sulla crescita non ha ancora scalfito il mantra dell’austerity nelle scelte concrete dei governi, è solo perché i leader politici non hanno ancora potuto/voluto andare oltre i vuoti richiami alla crescita, senza spiegare bene ai loro elettori ciò che  l’investimento pubblico nell’economia potrebbe comportare in termini di aumento dell’occupazione  e miglioramento del tenore di vita.

Insomma, è necessario contrastare l’ideologica dell’austerity, e il suo inquietante, perenne, accento sulla frugalità, il sacrificio e la rinuncia, con un discorso lungimirante che evidenzi il circolo virtuoso che potrebbe essere messo in modo da un allentamento della morsa sui consumatori e le imprese. Per ora l’immobilismo politico prevale, forse in attesa che dalle urne arrivi una risposta forte al partito trasversale dell’austerità, come è del resto già successo in Italia nel febbraio scorso. (A cura di Fabio Lucchini)

 

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