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LA CRISI DELLA PRIMA POTENZA MONDIALE

di Federico Steinberg

Dopo oltre tre anni di crisi dell’euro, pare evidente che l’Europa dovrà affrontare ancora diversi anni di bassa crescita, austerità, riforme strutturali, tensioni nei mercati finanziari, frizioni tra i paesi creditori e debitori e sfaldamento della coesione sociale nel Sud del continente. Anche supponendo che i cittadini siano disposti ad accettare un decennio perduto in termini di crescita e non diano il loro appoggio alle urne ai partiti favorevoli allo smantellamento della unione monetaria, è necessario costruire una nuova narrativa  per rilanciare il progetto europeo.

Sin dagli esordi del processo di integrazione europea apparve chiaro che l’obiettivo ultimo dell’Unione fosse di scongiurare definitivamente la guerra nel continente. E’ cosi nei decenni il mondo è rimasto colpito dalla capacità della vecchia Europa di risolvere i conflitti in modo pacifico e di costruire una complessa trama istituzionale con pesi e contrappesi sullo sfondo di una continua crescita economica e di una soddisfacente coesione sociale. Non uno Stato ma una costruzione post-moderna e post-westfaliana in costante evoluzione, fondata sulla pace, la cooperazione e l’uguaglianza tra i paesi membri.

Prima della crisi finanziaria globale, autori come il politologo britannico Mark Leonard azzardavano che l’Europa avrebbe dominato il secolo XXI perché il suo modello di risoluzione dei conflitti mediante il dialogo, la cooperazione, la sovranità condivisa, il rispetto per le regole concordate e il governo multilivello si sarebbe rivelato la migliore modalità per regolare rapporti internazionali resi sempre più caotici dalla crescente interdipendenza economica.

Oggi tutto è cambiato. Oggi è necessario ricostruire la narrativa dell’imprescindibilità dell’Europa. Senza dimenticare che l’Unione continua a essere una garanzia di pace e stabilità che non deve esser data per scontata. È necessario trovare nuovi argomenti per frenare l’antieuropeismo che impazza nel continente, specialmente tra i giovani, che vedono le guerre dei secoli passati, che hanno giustificato l’idea di Europa unita, come troppo lontane. Non facendo alcunché, come adesso, i vicini corrono il rischio di ritrovarsi di nuovo nemici.

Questa nuova narrativa passa necessariamente dal riconoscimento che solo un’Europa unita e forte permetterà ai cittadini di far sentire la propria voce nel mondo globalizzato e consentirà di coniugare gli ulteriori passi avanti nel processo di integrazione con i valori e gli interessi delle popolazioni europee. Tutte le previsioni indicano che nessun paese europeo, nemmeno la Germania, sarà tra le maggiori economie mondiali nel 2050. In effetti, non è una previsione sorprendente, poiché, davanti all’avanzata delle potenze emergenti, i paesi europei devono fare i conti con l’invecchiamento delle loro popolazioni e con i problemi legati alla crescita, complicati dall’alto livello dell’indebitamento pubblico e privato. Pertanto, gli Stati nazione europei paiono condannati all’irrilevanza nelle relazioni internazionali a meno che non riescano a forgiare quegli Stati Uniti di Europa in grado di articolare una voce comune e di esercitare potere e influenza in maniera non frammentata. Il contrario di ciò che succede ora.

Il Real Instituto Elcano ha stimato quale sarebbe la presenza globale, nel caso essi dovessero prima o poi nascere, degli Stati Uniti d’Europa. Sulla base dell’ Índice Elcano de Presencia Global, uno strumento sintetico che ordina, quantifica e aggrega la proiezione esterna di differenti paesi sulla base della loro rilevanza negli ambiti economici, della difesa e del cosiddetto soft power, si osserva che la Ue, se fosse un paese solo, avrebbe la maggior presenza mondiale, superando leggermente gli Stati Uniti e di gran lunga Cina, Russia, Giappone e Canada, che occuperebbero le posizioni di immediato rincalzo in una classifica siffatta.  Seguirebbero Arabia Saudita, Australia, Corea del Sud e India.

Il grande risultato dell’Europa unita è basato fondamentalmente sulle variabili economiche e relative al soft power. Per quanto riguarda le variabili economiche, spicca il dinamismo delle esportazioni di servizi e manufatti, così come gli investimenti diretti extra europei. Per quanto riguarda invece il soft power, l’Europa unita emerge nella cooperazione allo sviluppo, la tecnologia, la scienza, il turismo, lo sport e, in misura minore, nelle migrazioni, la cultura e l’istruzione. Contrariamente, la presenza militare europea sta decrescendo sia in termini assoluti che relativi nell’ultima decade.

Questi dati mostrano che la Ue ha il potenziale per essere un attore globale di prim’ordine.  Cosa distinta e che essa riesca a trasformare la sua potenziale presenza globale in potere e influenza. Per riuscirci, l’unica via possibile è uscire dal pessimismo imperante, consolidando lentamente gli Stati Uniti d’Europa sulla  base della riforma della governance dell’euro, una riforma che la crisi ha reso ormai improcrastinabile. (Traduzione e sintesi a cura di Fabio Lucchini)

 

Federico Steinberg, è ricercatore del  Real Instituto Elcano specializzato in economia internazionale e  professore del Departamento de Análisis Económico della Universidad Autónoma di Madrid

 

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