Pubblichiamo un estratto del contributo di Angelo Panebianco, autorevole studioso ed editorialista del Corriere della Sera, all'antologia “Le relazioni internazionali”, a cura di Marco Cesa, il Mulino, Bologna 2004
La tesi tocquevilliana dell'inferiorità delle democrazie rispetto ad altri regimi in politica estera è controversa, ma comunque serve ad evidenziare
prima facie alcuni problemi (ruolo dell'opinione pubblica, rapporto tra politica estera e dinamiche della competizione politico-elettorale interna) che
solo le democrazie devono fronteggiare. Ma le possibili specificità del rapporto fra democrazia e politica internazionale non si esauriscono qui. Una domanda essenziale riguarda la natura, tendenzialmente pacifica, o all'opposto, tendenzialmente bellicosa, delle democrazie. Il liberalismo sette-ottocentesco considerava i regimi rappresentativi come intrinsecamente pacifici: se le decisioni sulla guerra e sulla pace dipendono dai cittadini, ossia da coloro sui quali ricadono i costi di un'eventuale guerra, anziché dal capriccio dei sovrani, ciò non può che avere effetti pacificatori sul comportamento internazionale degli stati.
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Quale che fosse la definizione operativa adottata (a maglie più strette o più larghe), la ricerca quantitativa sulle guerre è stata pressoché unanime nel negare che le democrazie fossero coinvolte in guerre con minore frequenza di altri tipi di regime. Nei termini in cui è sempre stata formulata, la tesi liberale classica del “pacifismo” delle democrazie apparirebbe dunque falsificata dai dati disponibili.
C'è, osserva Schweller (che scrive nel 1992, ndt), un'importante eccezione: è il caso di Israele nel suo rapporto con gli stati arabi dal 1947 a oggi. Ma il caso di Israele è il caso di una democrazia che si trova a fronteggiare “costrizioni sistemiche estreme: è un piccolo stato, geograficamente isolato da altre democrazie, che è continuamente in lotta per sopravvivere”. Da un lato, dunque, le democrazie tendono a non ricorrere alla guerra preventiva a differenza dei regimi autoritari, e questo è un argomento a favore del loro superiore tasso di pacifismo. Dall'altro lato, l'eccezione rappresentata da Israele mostra che, in circostanze estreme, anche le democrazie adottano un comportamento “realistico”, ossia utilizzano senza remore tutti gli strumenti (compresa la guerra preventiva) della politica di potenza, al pari di tutti gli altri regimi politici.
Altra acqua al mulino della tesi della superiore propensione al pacifismo delle democrazie è portata da Dixon. Egli analizza le dispute interstatali dalla fine della Seconda guerra mondiale alla fine degli anni Ottanta e scopre che le democrazie ricorrono con assai maggiore frequenza degli stati autoritari agli arbitrati internazionali e al ruolo del “terzo” come giudice imparziale delle controversie. In altri termini, benché le democrazie siano coinvolte in guerre con la stessa frequenza dei regimi autoritari, esse propendono più dei regimi autoritari a ricorrere a forme non violente di risoluzione delle controversie internazionali. La spiegazione starebbe nelle norme e nei valori tipici dei regimi democratici, norme e valori che rendono le democrazie più propense di altri regimi politici all'accomodamento e al negoziato. Fondamentalmente, le democrazie (è un argomento che ritorna nelle spiegazioni della cosiddetta “pace separata”, o “pace democratica”, ossia dell'assenza di guerre fra regimi democratici) tenderebbero a estendere all'arena internazionale e alla politica estera quei principi di risoluzione pacifica dei conflitti che adottano nella loro vita politica interna.
A prescindere dalla questione del loro maggiore o minore pacifismo è comunque certo che esistono specificità che contraddistinguono il rapporto fra le democrazie e la guerra. Un'importante specificità riguarda il legame (tipico, anzi esclusivo, delle democrazie) fra i cicli elettorali e la guerra. La regolarità empirica registrata è la seguente: meno guerre alla fine del ciclo elettorale, più guerre all'inizio del ciclo.