L'8 febbraio scorso a Parigi, il Presidente francese Nicolas Sarkozy presentava ad un parterre composto da amministratori locali, politici, associazioni territoriali un ambizioso progetto per la rinascita delle “banlieu”. Il giorno prima, a Londra, il Primo Ministro Gordon Brown prendeva spunto da uno studio condotto dalla Strategy Unit del Cabinet Office sul potenziale economico-sociale del paese, per indicare la strategia vincente per rendere la Gran Bretagna leader dell'economia globale e campione di una civiltà fondata sull'equa ripartizione delle opportunità.
Le due iniziative non sono tra loro assimilabili, né nei presupposti né negli obbiettivi. Nel caso francese, si tratta di un intervento a fronte di una emergenza sicurezza che nasce da lontano e affonda le sue radici nella difficoltà a gestire un fenomeno, come quello della immigrazione, cresciuto ad una velocità superiore a quella della politica di farsene carico. Nel caso britannico, il fenomeno analizzato è meno vistosamente emergenziale, più articolato, ma anch'esso riferibile al trend globale del multi-culturalismo, alla trasformazione economico-sociale delle società occidentali, alla polarizzazione della ricchezza.
Se pur diverse per portato e finalità, tuttavia, le iniziative di Sarkozy e Brown una matrice comune ce l'hanno ed è il ruolo che assume la politica nel farsi agente di futuro. Nel piano “banlieu”, come nel progetto “Realising Britain's Potential”, la globalizzazione viene infatti assunta come trama delle nuove realtà sociali. L'economia globale, i flussi migratori globali, i conflitti culturali globali: le ricadute, per certi aspetti inedite, della globalizzazione sui sistemi economici e sociali nazionali, hanno talvolta portato la politica nazionale a ritenersi non-responsabile, talvolta persino non-potente, rispetto alla capacità di incidere sulla trasformazione della vita dei singoli e delle comunità.
Questa tendenza a marginalizzare la politica, costringendola in un recinto decisionale tutto sommato limitato, ha dominato la sfera pubblica dell'ultimo decennio imponendo una logica a tratti dogmatica - pro-global vs anti-global, pro-immigrazione vs anti-immigrazione, ecc - come se in ballo vi fosse la possibilità di opporsi all'allargamento del mondo e non tanto la necessità di indirizzarlo, accompagnando la trasformazione e favorendo un nuovo equilibrio.
Ebbene, l'approccio con il quale Gran Bretagna e Francia affrontano oggi i problemi nazionali dimostrano una radicale maturazione della politica nel farsi carico della sfida globale.
Oggi, non si guarda più alla Cina o all'India come a dei marziani del gioco economico globale. I flussi migratori cominciano ad essere razionalizzati, valutati rispetto alle opportunità ed ai pericoli ad essi legati. La trasformazione culturale oltre che economica delle società occidentali comincia ad essere inquadrata nella cornice flessibile che ne definisce i contorni, ovvero attraverso le lenti di quel “glocalismo” spesso invocato nei consessi accademici ma più raramente tradotto in strategia e decisione politica concreta.
Ed è in questa evoluzione di atteggiamento che si registra, forse, il più evidente segnale di “presa di coscienza” politica del sistema: non si tratta infatti di offrire risposte economiche a problemi economici; reagire con le armi dell'appartenenza culturale ad una sfida culturale, ma di ritrovare nella regia politica l'elemento unificante capace di dare coerenza alla strategia di adattamento, reazione, iniziativa.
Ecco, è su questo terreno che si muovono, all'unisono, Parigi e Londra.
Tanto nel progetto “banlieu” (ma il discorso potrebbe valere anche rispetto alle iniziative sarkoziste sulla riforma costituzionale, la laicità, ecc), quanto in quello sulle “sfide” della Gran Bretagna globale (anche qui, si pensi, alla riflessione dell'Arcivescovo di Canterbury sulla sharia e il diritto anglosassone) il messaggio implicito – e quello, a nostro dire, più rassicurante per le sorti dei paesi europei – è che la politica torna a fare politica, si riappropria degli strumenti di analisi e della responsabilità di condurre a sintesi un progetto di futuro. Non si tratta più di rincorrere il cambiamento, ma di indirizzarlo, dargli senso politico.
I due progetti meritano dunque una riflessione, non tanto per le ricette di medio o lungo termine proposte dai due capi di governo laburista e popolare, quanto per il salto filosofico implicitamente compiuto dalla cultura politica incarnata da Brown e Sarkozy.
Parliamo di banlieu, un problema drammaticamente esploso in Francia negli anni scorsi quando la violenza e la devastazione delle periferie urbane portarono l'allora Ministro dell'Interno Sarkozy a definire “racaille” quei teppistelli anti-sistema che, dai quartieri-dormitorio della periferia parigina, lanciavano una sfida alla Francia delle eguaglianze e della libertà. La fermezza con cui Sarkozy ingaggiò battaglia contro la degenerazione violenta della gioventù emarginata fece insorgere la sinistra che, ripetendo la consolatoria tiritera delle cause sociali dell'odio classista, pretendeva clemenza, pazienza e, in ultima analisi, comprensione per il furore nichilista della teppaglia urbana.
Superata l'emergenza, ovvero portato l'ordine pubblico sotto il controllo dell'autorità, la questione banlieu ha finalmente potuto essere affrontata con il rigore e la lucidità necessarie a farne non un problema di carattere locale ma un'opportunità di progresso civile.
La “nuova politica per le periferie” tracciata da Sarkozy con il sostegno dei Ministri più direttamente coinvolti nella stesura del progetto – Christine Boutin e Fadela Amara, rispettivamente Ministro e Segretario di Stato per le politiche abitative – si fonda sul principio di apertura alla diversità, come atto necessario a fondare il sentimento di appartenenza nazionale.
Secondo il capo di stato, vi sono in Francia quartieri “dove si hanno meno diritti e meno opportunità che altrove”. La risposta, come dimostra il fallimento delle politiche solidaristiche sino ad ora realizzate, non può dunque limitarsi alla creazione di ministeri ad hoc, o al mantenimento di strutture burocratiche che, nei fatti, alimentano la ghettizzazione senza intaccarne le cause.
Lo Stato dovrà piuttosto riscrivere il patto con i giovani delle periferie sulla base di un rapporto “donnant-donnant”, ovvero offrendo opportunità in cambio dell'impegno a coglierle.
Si tratta di avviare progetti – anche in forma sperimentale – che diano speranza ed opportunità concrete di realizzare il potenziale dei giovani immigrati, offrendo loro l'occasione di frequentare scuole di qualità, accedere a strutture formative di eccellenza, valorizzare il proprio capitale umano mirando a colpire gli ostacoli e le chiusure culturali verso una piena e consapevole integrazione nel sistema.
Si tratta, dunque, di investire risorse ingenti – si parla di 500 milioni di euro per rinnovare la rete del trasporto pubblico nelle aree sensibili -, di dichiarare una guerra senza quartiere alla criminalità, di puntare sull'istruzione come leva all'integrazione ed alla emancipazione attraverso la creazione di poli di “eccellenza” nelle periferie e l'estensione in tutto il territorio nazionale di scuole che offrano una “seconda chance” a chi ha prematuramente lasciato il sistema scolastico.
Si tratta, ancora, di ri-pensare le politiche abitative favorendo la proprietà sull'affitto agevolato e progettare una rete di strumenti che favoriscano l'occupazione, integrando formazione professionale e mercato, domanda e offerta.
Si tratta, insomma, di liberare il potenziale dei giovani immigrati per aiutarli a divenire pienamente dei cittadini. Un progetto, allora, che porta a ripensare il ruolo delle istituzioni pubbliche, la loro capacità di farsi agenti attivi della civiltà espressa nei diversi territori nazionali e dunque a ri-calibrare le responsabilità politiche ai diversi livelli dell'amministrazione pubblica.
Liberare il potenziale dei cittadini, ovvero valorizzare le risorse umane talvolta represse dagli ostacoli socio-culturali all'integrazione, è la vera grande sfida posta dall'era globale. Prendere atto dell'inadeguatezza delle strutture pubbliche esistenti è dunque il primo, necessario passo per tradurre il problema in opportunità.
È questo la stessa conclusione cui perviene il rapporto elaborato dalla Strategy Unit di Downing Street. Qui, l'ambito monitorato è più ampio. Si affrontano le sfide all'economia britannica poste dal nuovo corso dell'economia globale; si ragiona sui rischi e le opportunità dello sviluppo multiculturale anche di quelle aree territoriali tradizionalmente meno toccate dal fenomeno immigratorio; si affrontano i nodi della mobilità sociale ed i rischi legati ad ingranaggi che impediscono ai talenti di liberarsi; si affrontano dunque le conseguenze dell'invecchiamento della popolazione sul sistema dei servizi pubblici, sulla vita delle famiglie e delle comunità; si riflette infine sul rinnovamento della democrazia, delle forme di partecipazione, sulla risposta al crescente bisogno della società - sempre più informata e parcellizzata - ad incidere sulle scelte della politica e dell'amministrazione.
Il documento – corposo e dettagliato – mette insieme dati e trend, “case-history” virtuose e modelli indicativi di come le sfide possano essere colte e vinte, lanciando in definitiva un segnale di grande speranza rispetto alla capacità della Gran Bretagna non solo di reggere il cambiamento ma di continuare a guidarlo.
Le chiavi dello sviluppo stanno, secondo il rapporto del governo britannico, nella capacità del Regno Unito di farsi leader della conoscenza, attraverso la realizzazione di un sistema di istruzione e formazione professionale che permetta ai suoi cittadini di offrirsi alle imprese come una risorsa di innovazione e sviluppo in grado non solo di competere con le economie emergenti ma di attrarre professionalità altamente qualificate da tutto il mondo. La sfida globale – si sottolinea – è una sfida sulla capacità di generare innovazione, in tutte le attività produttive, dai servizi ad alto valore creativo ai prodotti della tecnologia, in particolare rispetto alla medicina ed all'ambiente.
Dalla capacità delle imprese britanniche di mantenere o acquisire la leadership sul fronte dell'innovazione dipende infatti la capacità del sistema economico nazionale di farsi creatore di ricchezza, posti di lavoro e benessere diffuso.
“Questo non significa ignorare i rischi che il cambiamento globale porta con se” – si legge nel documento. Economie nazionali sempre più interconnesse a livello globale rischiano infatti, in caso di crisi, una ricaduta immediata sul proprio sistema economico, come dimostra la crisi finanziaria americana e le conseguenze sui mercati europei. Ma un'economia fondata sul primato dell'innovazione, sull'apertura e flessibilità dei mercati, sulla leadership nei settori ad alto valore aggiunto, sulla diffusione lungo tutto il territorio nazionale dei suoi agenti di ricchezza, è un'economia attrezzata a reggere agli scossoni dei mercati e mantenersi strutturalmente forte.