“La Nato risponderà con decisione a qualsiasi tentativo di minare l'incolumità e la sicurezza della popolazione del Kosovo. La Nato continua ad annettere grande importanza alla realizzazione degli standard in Kosovo, specialmente per quanto riguarda la legalità, la protezione delle minoranze e delle comunità etniche, così come la protezione dei siti storici e religiosi. L'obiettivo della Nato è di proseguire l'assistenza nello sviluppo di un Kosovo stabile, democratico, multietnico e pacifico”. Sembra una dichiarazione molto politica. Ma proviene dalla più grande Alleanza militare odierna, che così ha accolto il 18 febbraio l'autoproclamata indipendenza del Kosovo, già provincia della Jugoslavia prima e della Serbia poi. Risale al Consiglio permanente degli ambasciatori, massimo organo politico del Patto atlantico, e conferma l'impegno dell'organizzazione a restare ed operare nell'area con la missione KFOR - circa 16.000 effettivi di 34 Paesi, dei quali 24 appartenenti all'Alleanza - sulla base della risoluzione 1244 varata dal Consiglio di sicurezza Onu nel 1999. La dichiarazione era stata preceduta da un avvertimento ufficiale, egualmente risoluto, del generale francese Xavier de Marnhac, comandante in capo della forza multinazionale. “I soldati della KFOR continueranno ad espletare la loro missione in modo aperto e professionale, ma siamo pronti ad agire con fermezza e determinazione. La violenza non sarà tollerata”. Che cosa teme l'Alleanza? Che la contestata indipendenza del Kosovo porti ad una rinnovata serie di violenze e ritorsioni, riaccendendo i fuochi del nazionalismo estremo (e della ferocia “tribale”) nell'intero teatro dei Balcani. In particolare, e lo dimostra lo spostamento di blindati e carri Nato, che nel nord della ex-provincia dove vive la forte minoranza serba (circa 100.000 su due milioni e 400.000 kosovari di etnia albanese) si tenti - da parte serba - di forzare l'annessione a Belgrado della fascia di confine. E che da parte kosovara-albanese si scatenino violente reazioni. L'Italia, che ha accettato freddamente l'indipendenza, è presente con oltre 2000 effettivi militari inquadrati nella KFOR. A disposizione del comando ha messo una “Operational Reserve Force” (ORF) da impiegarsi come forza di pronto intervento, consistente in un battaglione di 560 alpini del Settimo Reggimento di stanza a Belluno. Parteciperà intanto ad esercitazioni di routine, già previste, nei mesi di febbraio e di marzo. Riassunta così, la situazione del Kosovo sembra dominata soltanto dai suoi aspetti di natura militare, mentre si attende l'arrivo della missione prevalentemente civile (Eulex, con 2000 specialisti) dell'Unione europea, che dovrà accompagnare la formazione del nuovo Stato secondo i criteri delle democrazie occidentali. Dal punto di vista della prevenzione e del contrasto alla criminalità nella regione, e più ampiamente nei Balcani, l'ottimismo non è certo all'ordine del giorno. Ma non va dimenticato il forte interesse dell'Europa già organizzata a favorire l'evoluzione pacifica, civile e politica, anche in quello scacchiere. Alla NATO tocca comunque subito il compito assai delicato di guidare sul terreno in sinergia con altri soggetti internazionali - compito che la UE non è in grado di assolvere da sola - la fase che si spera di transizione verso una decente stabilità. Forse è persino possibile raggiungere indirettamente l'obbiettivo facilitando prima o poi l'ingresso nella Comunità tanto della Serbia quanto del Kosovo. Così si potrebbero calmare gli animi. E' l'auspicio intelligente di un politico che se ne intende: l'attuale ministro degli Esteri francese Bernard Kouchner, già amministratore del Kosovo per conto delle Nazioni Unite.
Data: 2008-02-22
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