Le relazioni internazionali hanno vissuto un periodo di intensa turbolenza dal finire degli anni '80 dello scorso secolo, da quando il liberalismo a tutto campo ha governato lo sviluppo economico, imponendosi col potere delle concessioni del credito estero o con l'arma infallibile del rating per bocciare i paesi meno virtuosi.
La teoria, che passa sotto il nome di “Consenso di Washington”, elaborata dall'economista John Williamson ed adottata dalle istituzioni internazionali, imponeva la riduzione dei deficit interni, delle imposte e delle spese pubbliche, l'accelerazione delle privatizzazioni e regimi di deregolamentazione.
Non c'è italiano che non sappia per il proprio vissuto il significato del Consenso di Washington e che non conosca o per lo meno intuisca che il tipo di Europa nella quale vive è stata condizionata dal Consenso, e come perché molti paesi hanno dovuto affrontare prove difficili di sopravvivenza.
Tuttavia (c'è sempre, grazie al Cielo, un tuttavia) è accaduto qualcosa che non s'era prodotta nei primi cinquanta anni del ‘900: tredici paesi per venticinque anni di fila hanno conosciuto una crescita del 7% annuo. Tredici paesi fra loro molto diversi: da Malta al gigante Cina, dalla patria del libero scambio Singapore alla ultra dirigista Malesia, per non parlare delle differenze tra Brasile, Botswana, Hong Kong, Indonesia, Giappone, Corea del Sud, Oman, Taiwan, Thailandia.
Perché regimi così diversi avevano conseguito palmares così ambiti? Se lo è chiesto la Banca Mondiale che incaricò nel 2006 una speciale Commissione per la Crescita e lo Sviluppo, formata da 21 saggi, tutti Nobel, Capi di Stato, Primi Ministri, rappresentanti dell'Onu, della UE, delle Banche Centrali, che hanno concluso in questi giorni il loro lavoro.
La Commissione ha scoperto che è stato un errore del Consenso di Washington ignorare le conseguenze sociali della politica economica, che l'amministrazione pubblica non va smantellata, ma deve crescere in modo attivo assieme all'economia.
I 21 saggi hanno rifiutato la certezza che solo la democrazia di tipo occidentale assicura lo sviluppo ma sostengono che le programmazioni debbono avere lunga vita grazie a governi forti.
La lista degli errori da non commettere è lunga. I consigli: non diminuire la disoccupazione con l'impiego pubblico. Basare sulla qualità dell'insegnamento e non sulla scolarizzazione il successo nell'educazione. Bocciare politiche non ambientali per motivi di crescita economica anche se iniziale. Sviluppare le infrastrutture, non considerando utile abbassare il deficit sopprimendo investimenti utili per le strade etc. In sintesi non si contesta che la mondializzazione e l'apertura economica e commerciale siano strumenti unici per creare ricchezza a lungo termine, ma i 21 chiedono politiche meno crude e più attente al sociale.
Aspettiamo, come è sempre accaduto, che il vento dell'America soffi anche in Europa.