di David Bidussa - Monica Bellucci ha lanciato in questi giorni la campagna per mettere in guardia dal dimagrimento eccessivo. Contemporaneamente arriva sulle nostre tavole il panico del piatto vuoto. E' proprio vero: non c'è mai concordanza tra condizioni oggettive e volontà. In tempi di lusso la parola d'ordine era “contenersi”. Passata la stagione, ritrovato il senso dell'equa misura, ci troviamo, per cause diverse, a fronteggiare una nuova possibile emergenza.
In mezzo sta una lunga storia. Il nostro rapporto col cibo è indubbiamente cambiato dai tempi della famosa inquadratura di Alberto Sordi in Un americano a Roma. Il viaggio dell'Italia da Paese del piatto solo (non del piatto unico che infatti è il segno di una società arricchita), a Slow è stato lungo. Dietro a tutto questo sta una prima condizione: mangiare meno o differenziato era una scelta e veniva avvisato come un'emancipazione. Insomma l'alimentazione rappresentava l'opportunità per riflettere sul rapporto equilibrato tra individuo e natura, mentre il cibo passava dalla condizione di alimento a quella di simbolo culturale. Intorno a quanto mangiamo, a che cosa mangiamo, si concentra da anni lo sguardo e l'attenzione delle società post-materiali. Ovvero di quelle società che uscite dalla condizione di indigenza, superata la condizione del paese della fame, del pezzo di carne salata appesa al soffitto su cui passare e ripassare il pane grosso (in molte realtà urbane, e rurali italiane si tratta di una scena che è stata archiviata solo con il boom degli anni '60), hanno il problema di gestire l'espansione del proprio corpo
Improvvisamente ciò che sembra venuto meno in questi giorni è proprio questo delicato equilibrio e improvvisamente il cibo è tornato ad essere l'unità di misura con cui si misura il benessere. La nostra alimentazione cambierà. Lo affermano in molti e lo annunciano con toni disperati. Condivido le preoccupazioni, ma ho la sensazione che stiamo facendo delle prove di panico su cui sarebbe bene riflettere prima di autorappresentarsi come indigenti. Avremo una prospettiva non radiosa a cominciare dal panorama delle nostre tavole dove si profilano all'orizzonte meno frutta, meno verdura, meno carne, meno pane, e meno pasta. Ma noi non avevamo rinunciato soprattutto al pane e alla pasta pensando che fossero alimenti della fame? E allora perché lamentarsene?
Non solo. La pasta non è il segno dell'abbondanza è l'effetto di una scelta alimentare che si impone tra ‘500 e ‘600 nel momento in cui sale la crisi dei generi di prima necessità e improvvisamente si abbassa il consumo delle carne, come ci racconta Emilio Sereni un saggio storico ancora insuperato (I napoletani da mangiafoglia a mangiamaccheroni) e che sarebbe bene riprendere in mano in questi giorni d'estate. In quel frangente inizia a fare la sua comparsa la pasta e si avvia un nuovo ciclo alimentare. Non è vero che la pasta è sempre stato il nostro cibo-base e non è vero che è sempre esistita. La pasta è il risultato e la risposta vincente a una crisi alimentare di circa 400 anni fa ed è la conseguenza della creatività. Non è facile inventarsi un prodotto alternativo – ovvero sia sostitutivo della carica proteica e dell'alimentazione precedente e più economico dal punto di vista dei costi - e sicuramente occorre del tempo perché questo si imponga. Ma noi non siamo nati con la pasta e forse sarebbe bene interrogarsi sull'abbandono dell'agricoltura che abbiamo sollecitato nel nostro modello di sviluppo. Dietro a un modello alimentare, a un regime dietetico sta l'aver pensato che la ricerca agro-alimentare era un surplus, comunque un optional. Una scelta miope legata a molti pregiudizi a cominciare dalle diffidenze verso gli Ogm, e fondata sul culto e il mito della “genuinità”.