Fabio Lucchini
Il 10 febbraio 2009, un ventina di giorni dopo l'insediamento alla Casa Bianca del nuovo presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, si terranno le attese elezioni per il rinnovo della Knesset israeliana e dell'esecutivo di Gerusalemme. Amir Oren, editorialista del quotidiano israeliano Haaretz, vive con inquietudine questo doppio passaggio, temendo che esso possa avere effetti deleteri sulle relazioni tra Stati Uniti ed Israele, sugli sviluppi del processo di pace con i palestinesi e, conseguentemente, sulla sicurezza nella regione.
L'ex presidente Jimmy Carter assicura che Obama si impegnerà in prima persona nella risoluzione dell'annosa questione, ma questo non basta. Molti in Israele mantengono un atteggiamento sospettoso nei confronti delle intenzioni del presidente, molto più disponibile del suo predecessore ad iniziare un percorso di dialogo con l'Iran. Ma non è l'attitudine di Obama verso Teheran ad inquietare. Anzi, la considerazione globale di cui gode il neo-presidente, anche nel mondo arabo, potrebbe conferire agli Usa quel ruolo di honest broker, onesto sensale, tra le fazioni mediorientali al quale gli americani aspirano da tempo (con più o meno convinzione). Un'America autorevole non potrebbe che giovare ad Israele. Il problema, paradossalmente, potrebbe essere Israele, o quantomeno una delle possibili direzioni che il Paese imboccherà dopo le elezioni del 10 febbraio.
Tzipi Livni rappresenta la volontà di continuare il dialogo e la cooperazione con gli Stati Uniti, Benjamin Netanyahu al contrario potrebbe optare per il confronto e la rigidità. E' importante che gli elettori israeliani valutino con attenzione l'alternativa che si presenta loro. Certo, il carattere nazionale mal tollera le ingerenze esterne e spesso le urne hanno punito i leader troppo remissivi davanti ai suggerimenti di Washington, ma tanto meno conviene ad Israele inaugurare una fase conflittuale nel rapporto con l'amico più affidabile su cui possa contare.