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LA POLITICA ESTERA DI OBAMA E IL SUO PARADOSSO

Aldilà del mutamento nella retorica le linee di fondo dell'impegno americano non possono cambiare. Obama potrebbe agire con più decisione

Leonardo Tirabassi, Presidente Circolo dei Liberi,

Definire le linee guida della politica estera del neo eletto presidente Barack Obama, non è cosa semplice. Al di là della retorica un po' fatua del "cambiamento", della necessità di "novità" si intravede sicuramente una diversa costruzione del discorso, una narrazione che unisce gli eventi tra loro in modo da risultare, appunto, altra da quella della precedente amministrazione. Obama parte avvantaggiato: il lavoro sporco l'ha già svolto il cattivo Bush. Qualsiasi sia la sua scelta, anche se le cose dovessero peggiorare, non sarà colpa sua e le azioni conseguenti, aumento dell'impegno militare e quant'altro, potrebbero essere semplicemente addossate sulle spalle della passata presidenza repubblicana, ma così paradossalmente Obama potrebbe agire anche in modo più deciso del suo predecessore.

Un dato è certo però, le linee di fondo dell'impegno americano non possono cambiare. Al centro rimane sempre le necessità di garantire la sicurezza del paese, combattere il terrorismo internazionale, provvedere agli approvvigionamenti di petrolio, proteggere gli alleati, in primo luogo Israele, difendere la libertà di commercio e quindi di navigazione. E' il caso di sottolineare inoltre che il prestigio, come cioè gli altri popoli e stati guardino a Washington, contro altare della fiducia che la Casa Bianca raccoglie all'interno del paese, è parte integrante degli obiettivi strategici che gli Stati Uniti devono salvaguardare. Questo per dire, ad esempio, che è impensabile un'uscita qualsiasi dall'Iraq (già troppe volte gli USA sono stati umiliati: Vietnam, sequestro all'ambasciata di Teheran, attacco alla base dei marines a Beirut nell'1983, Mogadiscio). Le costanti pesano anche in un mondo che cambia velocemente; anzi per i presidenti americani dopo il 1989 la difficoltà, la scommessa politica, consiste proprio nel sapere articolare gli obiettivi strategici in corsa, in scenari diversi e magari entro un quadro più o meno coerente. Ed è questa oggi la sfida maggiore. All'epoca della guerra fredda infatti, la cornice che definiva gioco, campo e regole era chiara e forniva l'ordine gerarchico di problemi, alleanze e soluzioni. Era il nemico che metteva tutti gli alleati in riga e dava un ordine anche alle emergenze: qualsiasi soluzione a problemi economici, sociali e politici doveva rientrare nella logica di garantire prima di tutto la sicurezza.

Da vent'anni non è più così; niente, per fortuna, ha rimpiazzato il ruolo dell'Unione Sovietica, nemmeno il terrorismo. E Obama è chiamato a rispondere a sfide diverse da quelle del suo predecessore, dalla crisi economico finanziario all'affermarsi di potenze globali e di giganti regionali. Il che significa che la libertà di manovra per ogni stato sovrano risulta sul piano politico maggiore di prima, di quando il muro di Berlino separava alleanze militari ed economiche. Adesso, in linea di massima, sicurezza ed economia possono non andare di pari passo e ogni stato può provare a ricercare la sua strada nel mondo componendo le tessere a sua capacità e piacimento. Capitali, mercati, risorse energetiche, sicurezza sono elementi interconnessi, ma indipendenti offerti da differenti attori. Non c'è dubbio, ad esempio, che l'Italia acquisti sicurezza dagli Stati Uniti, ma non è detto che Washington riesca ad offrire anche i capitali, né è ovvio che la Germania sia in grado di farlo, e sicuramente nessuna potenza occidentale può offrire petrolio e gas. Ecco quindi il dipanarsi di accordi economici con paesi non occidentali, né democratici e magari non proprio puliti sul piano della lotta al terrorismo.

Quello che certo cambierà oltre allo stile presidenziale, sarà la retorica sulla sicurezza. Essa con Bush si basava su tre pilastri rivendicati con orgoglio, da alcuni sentito come arroganza: l'ostentazione dell'unilateralismo, la logica estesa degli aut aut, l'esportazione della democrazia. A giustificazione, si possono portare molti motivi. In primo luogo, vi è da dire che le ragioni dichiarate da Al-Qaeda per rivendicare l' 11 settembre risiedevano anche nella presunta debolezza del Grande Satana che non aveva risposto in modo efficace agli ultimi attacchi; quindi gli americani hanno dovuto mettere al primo posto il restauro della propria credibilità ed autorevolezza. Gli eccessi verbali si devono proprio alla necessità di far passare un messaggio preciso: "Nessuno può colpire impunemente gli Stati Uniti; la reazione sarà immediata, micidiale e niente ci può fermare. Se gli alleati capiscono, bene; altrimenti siamo disposti a muoverci da soli". Eccessivo? Non direi: quello che semmai risulta fastidioso, perchè inutile, è l'affermazione, ripetuta anche nel secondo documento sulla sicurezza nazionale del 2006, della difesa dell'unicità della superpotenza come garanzia della pace: se una nazione è la sola super potenza, lo è, ma il rivendicare la necessità che sia così risulta francamente senza senso, insopportabile e provocatorio. E' un po' come la teoria dell'esportazione della democrazia che, presa per vera, è velleitaria altrimenti è un'ovvietà, perché la guerra è fatta per sconfiggere un nemico, rovesciare un regime, trovare le armi di distruzione di massa, garantire la sicurezza, essere presenti nella regione, controllare le vie del petrolio e ‘dopo' instaurare la democrazia.

Nella seconda guerra mondiale, gli Stati Uniti sono entrati in guerra per rispondere a Pearl Harbor, per aiutare Londra e il mondo libero, dopo è venuta l'instaurazione della democrazia come logica conseguenza assieme alla costruzione sociale ed economica del nuovo ordine mondiale. Estremismo verbale, retorica valoriale non sono sufficienti a eliminare gli interessi materiali e la politica: non è un caso che l'alleanza delle democrazie richiesta da molti sia rimasta lettera morta. In secondo luogo, Bush ha dovuto approntare in tempi brevissimi una strategia per il Medio Oriente che ridisegnasse i rapporti di forza nell'intera regione. La soluzione l'ha trovata nell'analisi ideologico-teorica neoconservatrice che era l'unica disponibile e capace di una visione complessiva oltre al realismo opportunista, al cabotaggio della burocrazia del Dipartimento di stato. Ma la sintesi delle diverse esigenze, ad esempio, non è stata delle più felici: la "guerra leggera" di Rumsfeld con la sua Revolution in Militarry Affair (RMA), ottimo principio di ristrutturazione aziendale organizzativo, si è rivelata incapace a risolvere problemi strategici perché usata in modo improprio, difendere una vittoria è cosa diversa che vincere.

Adesso, a quasi otto anni dall'attentato alle Torri gemelle, il terrorismo islamista - per usare una semplice etichetta - ha finito per essere un'emergenza e si può dire che sia stato ridotto il suo grado di pericolosità. Altri problemi hanno acquisito la priorità. La realtà in cui si trova ad operare Obama è ben diversa da quella che sorprese Bush; l'economia è il tema all'ordine del giorno; banche, finanza, il rapporto stato e mercato, tra produzione e speculazione sono le nuove emergenze strategiche che gli americani vogliono veder affrontate e discusse. Il Medio Oriente è un fastidio che va trattato di necessità, lì c'è il petrolio, da lì arrivano gli psicopatici di Al-Qaeda, lì ci sono gli amici israeliani, ma va controllato, maneggiato con cura ed è necessario fin da subito pensare a sganciarsi dalla dipendenza da esso.



Data: 2008-11-24







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