Giorgio Gomel, Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente, 17 gennaio 2009,
Mentre scrivo, la massiccia offensiva di Israele nella striscia di Gaza appare volgere al termine e concludersi con una tregua negoziata tramite i mediatori egiziani. Essa preluderà forse a un accordo di più lungo termine che contempli la fine del terrorismo di Hamas contro Israele, il suo disarmo vigilato da osservatori internazionali lungo la frontiera con l'Egitto, l'interruzione del blocco economico di Gaza, la ricostruzione dopo il disastro umanitario arrecato dalla guerra.
Pensiamo dunque al “giorno dopo”, al come ricostruire, dopo la cruda conta delle vittime, i lutti e le sofferenze di gente segnata per la vita dalla violenza, un minimo di ordine civile e di progresso economico a Gaza e favorire così la strada verso la convivenza pacifica in quella regione. Il compito che ci spetta – in quanto opinione pubblica dell'Europa, del mondo, attenta ai diritti umani, convinta della necessità della pace fra israeliani e palestinesi, dell'esigenza di spartire una terra contesa fra due diritti di pari dignità – non è quello di attribuire colpe, di infliggere punizioni. E' quello di offrire ponti, spingere le parti in lotta al dialogo, riprendere la logica degli accordi di Oslo del 1993 quando il riconoscimento reciproco dei diritti aveva dischiuso uno spiraglio concreto di speranza : il conciliare il diritto alla pace e alla sicurezza per Israele con quello a uno stato indipendente per i palestinesi.
La strada è oggi ardua. La violenza genera e perpetua altra violenza in un'orgia di reciproca brutalità. Le sofferenze della propria gente tendono a ottundere la sensibilità alle sofferenze degli altri; impediscono in molti israeliani la comprensione e compassione per i palestinesi, per i loro diritti negati di popolo. Dei palestinesi si vede solo la minaccia terroristica, il nemico ingrato e irriducibile, che va domato con la forza delle armi. Come ci ricorda Abraham Yehoshua in un appello accorato ai suoi compatrioti (La Stampa, 8 gennaio 2009), “ Non dimentichiamo che quella gente è nostra vicina, che ha una patria in comune con noi che chiama Palestina e noi chiamiamo terra di Israele e che dovrà convivere con noi nel bene e nel male …”
Un meccanismo analogo agisce tra i palestinesi, che demonizzano Israele in quanto aggressore. Così nell'uno e nell'altro campo è la difesa sciovinistica delle proprie ragioni a dettare legge.
Nella guerra insensata scoppiata con l'inizio della seconda intifada otto anni fa, si contano oltre 6000 morti fra i palestinesi ( più della metà a Gaza), oltre 1000 fra gli israeliani.
Da un lato è manifesto come sia vano per Israele affidarsi alla mera repressione militare del terrorismo senza offrire un negoziato che consenta ai palestinesi di cogliere i benefici concreti del ripudio della violenza e dell'edificare uno stato sovrano in rapporto di buon vicinato con Israele. E' legittimo il diritto di Israele all'autodifesa, ma il punto è come esercitare quel diritto. La sicurezza del paese non può fondarsi nel lungo periodo sulla mera forza delle armi, ma sulla piena accettazione della sua esistenza da parte dei palestinesi e dei vicini arabi. Quella accettazione esige sì la sconfitta militare degli oltranzisti di Hamas, ma anche la convinzione dei palestinesi che dal negoziato e non dalla violenza potrà scaturire un futuro decente. Le radici stesse del terrorismo si potranno estirpare solo dall'interno della società palestinese ed è interesse vitale di Israele fare tutto quanto è in suo potere per dissociarla dall'estremismo integralista di Hamas e del Jihad islamico. A tal fine, è urgente per Israele riprendere il negoziato con l'ANP su basi serie. Dal ritiro unilaterale da Gaza nel 2005, malgrado ripetute enunciazioni di buoni propositi, Israele non ha fatto alcun passo, paralizzata da un lato nel suo immobilismo diplomatico dai contrasti interni al paese, spinta dall'altro lato dalla forza di pressione dei coloni ad una dissennata espansione degli insediamenti in Cisgiordania. Non ha liberato prigionieri palestinesi, non ha alleviato le condizioni vessatorie e umilianti dell'occupazione, non ha accettato il piano di pace della Lega Araba. Ha fallito miseramente nel tentativo di isolare diplomaticamente ed economicamente, tramite la chiusura dei confini, il regime di Hamas. Urge oggi un negoziato con l'ANP sulle questioni dirimenti degli insediamenti, dei confini con uno scambio paritario di territori fra i due stati, dello status di Gerusalemme, capitale dei due stati. Gli eventuali accordi trarranno forza dal sostegno indiretto di Hamas – se sarà possibile – o da nuove elezioni e dall'impegno di sottoporli a referendum tra i palestinesi.
L'illusione militarista di Hamas di piegare Israele con la violenza imitando i successi di Hezbollah in Libano è sconfitta. E' grave che il governo di Hamas dalla vittoria elettorale del 2006 non abbia fermato un'inutile guerriglia contro Israele e abbia poi interrotto la tregua osservata di fatto dall'estate 2008. Il ritiro da Gaza dell'agosto 2005 fu evento di grande importanza; pur con i suoi limiti, poteva essere il preludio a futuri, necessari ritiri da parti cospicue della Cisgiordania. Gaza era un embrione di stato palestinese, sebbene necessitasse per diventarlo degnamente, di un legame fisico e politico con la Cisgiordania, di luoghi di transito aperti, di un confine davvero sovrano con l'Egitto. Certamente quel ritiro, voluto unilateralmente da Sharon e non negoziato con l'ANP, aveva fornito a Hamas un alibi per esaltarlo come una sconfitta di Israele. Era un ritiro limitato perché non concedeva ai palestinesi il controllo del mare né dello spazio aereo. Ma poteva costituire, nel frattempo, un avvio di progresso civile ed economico per quella terra diseredata, un'occasione da cogliere con la fine dell'occupazione israeliana.
Così non è stato. Il “rifiuto di Israele” e degli accordi di Oslo resta, nel settarismo ideologico di Hamas, un elemento paralizzante. In queste condizioni, non si faranno passi avanti.