Daniele Raineri, Il Foglio, 29 marzo 2009,
Bruxelles.
Il quartier generale della Nato è una linea bassa di edifici grigi, siepi e guardie private. Il progetto originale parlava di padiglioni di ospedale, prima di quarant'anni fa, prima che il comando centrale dell'Alleanza atlantica fosse spostato da Parigi a qui, venti minuti dal centro di Bruxelles, e tutto dovesse essere convertito in fretta. Oggi davanti alla base militare hanno spalancato un nuovo spazio ancora più smisurato, sgombrato di fresco – nel vuoto hanno lasciato soltanto qualche collinetta di terra smossa e ghiaia – perché è di nuovo tempo di cambiamenti. C'è da fare un balzo di dimensioni. La nuova Nato a 28 paesi si sta allargando, ha fame di spazio e nel giro di qualche mese il complesso dovrà raddoppiare le dimensioni originarie.
Tra pochi giorni è il sessantesimo anniversario del Patto atlantico e questo al quartier generale non frega molto a nessuno. Il vertice di Strasburgo Kehl del 3-4 aprile, supercompresso in soli due giorni e tre posti diversi – e con l'intervento anche dei capi di stato dell'Alleanza, a complicare l'intricato traffico cerimoniale – permetterà a tutti poco più di una stretta di mano con il presidente americano Barack Obama alla sua prima uscita ufficiale di massa. In realtà gli incontri importanti sono già avvenuti o sono in corso. Qui a Bruxelles sono già passati e per ben due volte il vicepresidente americano, Joe Biden, il segretario di stato, Hillary Clinton, quello della Difesa, Robert Gates, e il generale David H. Petraeus.
Lunedì mattina con discrezione era a Bruxelles Richard Holbrooke, inviato speciale dell'Amministrazione americana per la regione Afghanistan e Pakistan. Afpak, come dicono gli americani con una parola sola. La sfida più difficile della Nato – che in origine fu concepita per resistere nelle pianure all'onda d'urto dell'attacco sovietico e proteggere l'Europa occidentale – oggi sta a tremila chilometri a est, sulle montagne dell'Asia meridionale, contro una guerriglia povera ma irriducibile, poco istruita ma ferocemente devota all'islam. Per questo nel 2009 l'anniversario che conta non è il sessantesimo, è l'altro: i dieci anni trascorsi dall'ultima grande Revisione strategica. La Nato tira ancora avanti con una strategia elaborata nel 1999, il periodo più incerto di transizione: quando ormai il patto tra nazioni era obsoleto e ridicolo se intendeva tenere fede alla sua ragione sociale – Qual era ormai? Fermare i fantasmi dei T-72 sovietici prima che attraversassero il Reno in mezzo alla Germania da tempo riunita? – ma ancora non vedeva uno scopo chiaro davanti a sé (e quando mancavano ancora due anni all'attacco di al Qaida negli Stati Uniti).
Altri incontri speciali. Appena dopo la visita del consigliere americano per la Sicurezza nazionale americano, Jim Jones, in Danimarca, l'Amministrazione Obama ha deciso di sostenere la nomina del premier danese Anders Fogh Rasmussen a segretario generale della Nato. Il vertice tra due settimane – dice al Foglio un ufficiale della Nato – sarà soltanto l'occasione per l'annuncio formale in vista della scadenza del mandato dell'olandese Jaap de Hoop Scheffer il prossimo 31 luglio, perché il Dipartimento di stato lo ha già comunicato agli alleati: del resto Rasmussen godeva già del sostegno di Germania, Francia, Gran Bretagna e Italia.
L'altro favorito di Washington, il ministro della Difesa canadese, Peter MacKay, che aveva il favore di Washington per i molti caduti sopportati dal Canada in Afghanistan, s'è tolto dalla gara dicendo di essere concentrato sul suo lavoro in patria. Ora l'ostacolo per Rasmussen – atlantista liberale e senza complessi – sta in Turchia, il secondo esercito più grande della Nato dopo quello americano, e in Afghanistan. Ankara minaccia il veto alla sua nomina per le prese di posizioni del premier danese a difesa della libertà di vignetta, e minaccia anche di non rafforzare il suo contingente in Afghanistan. I soldati turchi, di religione sunnita, sono molto ambiti perché sono naturalmente ben visti dalla popolazione afghana.
I talebani sfrutteranno invece il caso delle vignette danesi su Maometto – che ancora infiamma il fondamentalismo islamico, lo scorso luglio un attentato suicida contro l'ambasciata danese in Pakistan ha fatto otto morti – come materiale benedetto per la loro instancabile opera di proselitismo e propaganda. Eppure l'Amministrazione Obama ha ormai deciso: rassegnata a fare a meno di altri preziosi soldati turchi in Afghanistan e intenzionata a sfidare il potente simbolismo del caso vignette, in cambio del “sì” a Anders Fogh Rasmussen. Per cambiare passo, la Nato ha messo mano a una grande revisione strategica che fisserà nuovi compiti e nuovi obiettivi, durerà almeno un anno e dovrebbe concludersi con un vertice in Portogallo nel 2010. Nel frattempo sta saltando fuori anche l'idea, per perfezionare il nuovo Patto, di coinvolgere nella sua stesura un comitato di saggi, di superconsulenti esterni. Ma per ora i paesi non vogliono interferenze da fuori, di nessun genere: “Sappiamo già bene da soli che cosa vogliamo, e soprattutto che cosa non vogliamo”.
La revisione strategica è ancora lunga, ma già si capiscono alcune cose importanti. La nuova Nato sarà un'operazione navale. Non sempre e non soltanto, ma bisognerà abituarsi all'idea che l'Alleanza avrà un mucchio di lavoro sull'acqua – il campo di confronto tra potenze del prossimo decennio, basta leggere il saggio di Robert Kaplan sull'ultimo Foreign Affairs o le cronache di questi giorni sulle tensioni ravvicinate tra vascelli cinesi e americani. In fondo la Nato, dicono gli osservatori maligni, ha per sua natura una vocazione acquatica: si tratta di missioni incruente – quando è stata l'ultima battaglia fra squadre navali? – per agire in territorio internazionale – che evita di nazionalizzare troppo gli eventuali confronti – con mandati “buoni” che difficilmente possono essere criticati: fermare il traffico d'armi, respingere gli attacchi di pirati, o sorvegliare le rotte preziose dell'energia.
Eppure fino a oggi la prima e unica operazione della Nato della storia scattata invocando l'articolo 5, ovvero il punto centrale del Trattato di Washington del 1949 che dice “se attacchi uno di noi, risponderemo come se fossimo sotto attacco tutti”, è stata proprio un'operazione antiterrorismo sul mare. Active Endeavour, decisa soltanto sei ore dopo l'incursione suicida dell'11 settembre 2001, coordinata dal quartier generale di Napoli, per mettere in sicurezza il Mediterraneo occidentale nei giorni pieni di tensione seguiti all'attacco terrorista (ci sono collegamenti e infrastrutture strategici da tenere d'occhio, per esempio i gasdotti Libia- Italia e Marocco-Spagna). Active Endeavour ha funzionato con tale regolarità da essere prolungata a tempo indefinito, e continua ancora oggi. Dal marzo 2004 è stata estesa ormai a tutto il Mediterraneo ed è diventata un caso scuola di deterrenza antiterrorismo e di controllo armato del territorio. Caso scuola pronto per essere applicato ad altre acque. Una squadra navale della Nato è impegnata davanti alle coste orientali dell'Africa, dove i pirati hanno covi sulle coste incontrollate della penisola somala del Puntland, per disinfestare dalla loro presenza l'autostrada marittima più importante per l'economia del mondo, tra Suez e il Golfo. L'anno scorso i somali hanno attaccato più di sessanta navi, e le compagnie d'assicurazione hanno obbligato i comandanti a spostare le loro rotte al largo almeno di duecento miglia.
Nella stessa zona di deterrenza la Nato potrebbe collaborare con il piano di sorveglianza contro Hamas, per impedire il traffico di armi verso il Sinai e verso le mani del gruppo terrorista palestinese. E' un'ipotesi fatta lo scorso gennaio, immediatamente dopo la tregua unilaterale di Israele, che s'ispira a un'altra missione navale Nato ben condotta: Sharp Guard, dal 1992 al 1996, quando le Nazioni Unite imposero un embargo sulle armi contro l'ex Jugoslavia e sanzioni economiche contro la Serbia di Slobodan Milosevic. Le navi non si limitavano a sorvegliare, ma abbordavano anche i vascelli sospetti e li ispezionavano. La revisione strategica Nato sarà pronta soltanto tra un anno, ma porterà impresso su di sé il marchio di quello che succederà nel 2009 in Afghanistan, l'anno del make or break, dell'“adesso o mai più”. In questi giorni l'Amministrazione Obama sta ultimando una policy review più piccola, quella americana sull'Afghanistan.
Caffè acquoso bollente sul tavolo e marine di guardia alla porta, il viceammiraglio William D. Sullivan, capo della missione americana alla Nato, dice al Foglio che è ancora troppo presto per fare previsioni sulla review – “il presidente la sta ancora guardando” – e anche sul ruolo della Nato. E' ancora così presto che anche i 17 mila soldati americani in più che arriveranno in Afghanistan entro due mesi per decisione della Casa Bianca non fanno ancora parte della nuova strategia – chiarisce l'ammiraglio – non sono il “surge” come in Iraq, sono una risposta alle richieste dei comandanti sul campo che hanno bisogno adesso di più truppe. Anche per garantire lo svolgimento delle prossime elezioni d'agosto in relativa sicurezza. E comunque – dice Sullivan – la nuova strategia afghana di Obama non sarà un “cambiamento enorme rispetto ad adesso”.
Le richieste agli alleati Nato saranno le stesse, perché sono necessarie per vincere la guerra: più uomini e meno caveat. Mandate più soldati, e date al comando la possibilità di impiegarli in modo più duttile e flessibile: spostarli dove c'è bisogno, a fare quello che di volta in volta è meglio per il senso complessivo di tutta l'operazione contro i talebani. Anche combattere. Sullivan spiega che ci potranno essere cambiamenti importanti in alcuni settori. Nel numero dei civili impegnati in progetti di stabilizzazione, destinato ad aumentare: il “civilian surge”.
Nella polizia afghana, che ora dovrà essere formata con criteri paramilitari e non da semplice polizia, perché deve affrontare una guerriglia feroce e determinata. Nelle relazioni con i paesi vicini, tutti da coinvolgere, Russia inclusa. Avete intenzione di aprire un “corridoio iraniano” per garantire il passaggio sicuro di convogli Nato da porti dell'Iran verso l'Afghanistan? “Sta ai singoli paesi decidere, sono liberi di scegliere”. E l'America ha già deciso, ora dopo l'apertura di Obama al regime di Teheran? “Questo resta da vedere”. Sullivan riconosce che ci sono problemi nella guerra. Due su tutti: i santuari di al Qaida e talebani nel vicino Pakistan e la corruzione del governo di Kabul, che vanifica parte dei progressi successivi al 2001. Ma l'atteggiamento prevalente, qui a Bruxelles, è di ragionevoli buone aspettative. La violenza colpisce soltanto aree determinate del paese. L'anno scorso l'80 per cento degli attacchi terroristici è arrivato sullo stesso 10 per cento di province, dove vive l'8 per cento della popolazione afghana.
Nei corridoi del GH di Bruxelles e in quelli dello Shape, Supreme Headquarters Allied Powers in Europe, di Mons, a un'ora piatta di autostrada, quando si parla del nuovo Strategic Concept, ovvero della missione fondamentale che definirà la Nato nei prossimi anni, si sente spesso la parola solidarietà: la nuova Nato sarà un'organizzazione allargata di nazioni solidali tra loro. Quindi per attivare la reazione collettiva basterà molto meno di un'invasione russa. In teoria, spiegano gli analisti, il patto di intervento potrebbe scattare anche per eventi di scala minore: per esempio, se un paese vedesse le sue linee di approvigionamento energetico tagliate, come è successo questo inverno alla Bulgaria totalmente dipendente dal gas russo, lasciata al gelo per colpa della lite tra Mosca e Kiev. Le altre nazioni sarebbero tenute ad aiutare. Oppure in caso di attacco informatico di grandi dimensioni.
Sembra un'ipotesi di studio, ma anche questo è già successo, in Ucraina. Un ufficiale Nato schiocca le dita: “La nuova Nato sarà così, non troppo legata da formule strette. C'è un terremoto in Pakistan? Siamo intervenuti, nel 2005, anche se non siamo ente di beneficenza o un'unità di crisi”. Resta da vedere se la nuova “Nato solidale” e non ancorata alle vecchie definizioni sarebbe anche così rigorosa nel decidere: nel caso dell'approvigionamento energetico, alcuni paesi europei stanno dalla parte della Russia, altri cercano linee alternative. Davvero si schiererebbero su un fronte solo? Per ora, ci sono difficoltà anche in campi meno sensibili e meno controversi. Il comando Nato ha da poco lasciato libertà ai singoli contingenti schierati in Afghanistan di usare la forza contro i narcos, i trafficanti d'eroina e le coltivazioni di oppio. Alcuni si sono rifiutati; ma va bene lo stesso, “perché non possiamo ordinare alle nazioni come impegnare i loro militari”.