Daniele Raineri, Il Foglio, 26 aprile 2009,
A che punto ci dovremo preoccupare per la marcia fluida dei talebani dentro il Pakistan? Oggi sono a soli centodieci chilometri dalla capitale Islamabad: la distanza della strada a scorrimento veloce Roma-L'Aquila. La loro espansione procede a pause e scatti nervosi, distretto per distretto, provincia dopo provincia, ma non incontra resistenza, non è nemmeno rallentata. Anche gli osservatori indiani, dalla vicina frontiera, cominciano a preoccuparsi: che intenzioni hanno questi? Si stanno dirigendo a sud, verso i centri del potere, la capitale Islamabad e la capitale militare, la città-guarnigione Rawalpindi? O eviteranno i settori di maggiore resistenza e devieranno a est, verso noi, verso l'India, per portare la guerra agli odiati politeisti hindu?
L'esercito pachistano ha montato tre “grandi offensive” consecutive per spazzarli via – anche per compiacere le pressanti richieste di Washington – ma è stato sconfitto tutte e tre le volte, l'ultima a febbraio, e ora appare pericolosamente rassegnato. Dieci giorni fa i talebani hanno obbligato prima i soldati e poi il governo centrale a un accordo umiliante che cede loro il controllo sulla bellissima valle dello Swat. Fino a un anno fa era la destinazione preferita dalle coppie moderne della capitale in luna di miele. “Stando qui capisco perché scrivete tante poesie”, disse negli anni Venti il giovane Winston Churchill, ufficiale dell'esercito britannico in visita. Oggi chissà che cosa capirebbe.
Islamabad tenta di minimizzare. E' vero, i guerriglieri pashtun sono usciti dalle aree tribali della frontiera nordorientale, stanno ingoiando bocconi progressivamente più grossi del paese e sciamano verso il centro, ma la spartizione del potere è ancora possibile, si tratta di compromessi amministrativo-religiosi locali che, anzi, fanno tornare subito la situazione alla normalità . Tre giorni fa il primo ministro Yousuf Raza Gilani, chiuso dentro il suo palazzo blindato nel centro di Islamabad, ha detto proprio questo: “La situazione nello Swat è già tornata alla normalità”. Come a un segnale, il portavoce dei talebani Muslim Khan ha replicato con un invito raggelante diretto ad al Qaida, perché prenda casa nella zona appena sottomessa: “Osama bin Laden può venire da noi, e sarà trattato come un fratello. Lo aiuteremo e lo proteggeremo”.
Resta da capire anche che cosa stanno per fare i militari, ora che le prime basi dell'aeronautica dov'è conservato l'arsenale atomico – Kohat, Peshawar, Risalpur – sono progressivamente circondate dal fronte mobile dei talebani. Le bombe per cautela sono disassemblate, “screwdriver level”, “a livello cacciavite”. Poco rassicurante, e gli americani hanno scritto un piano d'intervento eccezionale per metterle al sicuro con l'uso della forza.
E gli elementi moderati, “light”, riveriti, su cui già in Iraq si è fatto leva per battere le fazioni guerrigliere più “hardline”? Il mullah che ha appena finito di mediare a Swat per conto dei talebani l'accordo di pace con il governo ha fatto sentire la propria voce: ora il governo è “illegittimo” e la legge islamica deve essere imposta su tutta la nazione. Nella regione i guerriglieri stabiliscono posti di blocco, occupano gli ospedali e le sedi del governo, hanno costretto i giudici locali a una “vacanza a tempo indeterminato”, pregano in pubblico nelle moschee e reclutano i giovani per spedirli a combattere in Afghanistan. In tre giorni di “normalità” hanno anche fatto sparire quattro agenti di polizia, sei soldati e quattro civili.
Khamran Shafi è un giornalista locale di Dawn che descrive così, incredulo, l'avanzata indisturbata dei talebani mentre gli passano accanto in carovane motorizzate sulle autostrade: “Sabato 11 marzo un convoglio di dieci pick-up su quattro ruote con cabina doppia, carico di talebani equipaggiati di ogni arma portatile possibile – kalashnikov, lanciarazzi, mitragliatrici pesanti – ha viaggiato da Daggar al palazzo del governo del distretto di Buner … Il convoglio è entrato nel distretto di Swabi all'altezza del villaggio di Jhanda, ha attraversato il centro del distretto (la città di Swabi), è passato sull'autostrada, è uscito a Mardan, ha attraversato i campi di Mardan e, mettendo in mostra le armi perché tutti le potessero vedere, ha proseguito per Malakand”, seconda città della regione dopo Peshawar.
Shafi va avanti: “Così facendo i talebani hanno infranto molte leggi dello stato pachistano, non ultime quelle che proibiscono il possesso delle armi pesanti, il mostrare armi in pubblico e così via. Hanno attraversato il quartier generale di un distretto che non hanno ancora occupato (ma che occuperanno, più prima che poi, dato il non governo del territorio e il non presidio della frontiera da parte dell'esercito nazionale); su un'autostrada pattugliata dalla polizia federale; attraverso un accampamento militare – proprio dietro il centro commerciale Punjab Regimental Centre, al cui interno c'è la solita panetteria-pasticceria gestita dai soldati in servizio – e di là attraverso il resto dell'affollata città di Mardan, sede anche del ministro in capo della provincia.” Il dettaglio impagabile è quello della panetteria gestita dai soldati. In Pakistan l'esercito è profondamente inserito e controlla molte attività commerciali, compresi i negozi di alimentari – “Tutti i paesi hanno un esercito, da noi un esercito ha un paese”, dice la battuta amara dei pachistani – ma non riesce a fermare la guerriglia.
David Kilcullen dice: “Il Pakistan rischia il collasso nei prossimi sei mesi”. Kilcullen è il giovane e geniale ufficiale dell'esercito australiano che il generale americano David Petraeus chiamò nel 2007 a Baghdad, per avere il migliore consulente di counterinsurgency a portata di mano. Faccia rosea e pienotta, appassionato di antropologia, ma con esperienza di combattimento (e cicatrici) contro la guerriglia indonesiana. Contrario alla guerra in Iraq, “perché venendo qui voi americani avete fatto proprio un bel favore ad al Qaida”, ma assoldato lo stesso per vincerla. Kilcullen è un outsider naturale, ma è ascoltato con attenzione dagli ambienti militari americani anche se – o forse proprio perché – dice ad alta voce le cose che quelli non vorrebbero sentire. E ora dice che il Pakistan è a rischio “collasso entro sei mesi”. Ieri il segretario di stato americano, Hillary Clinton, ha fatto una dichiarazione (poco) meno a effetto, ma sulla stessa linea: “I think that the Pakistani government is basically abdicating to the Taliban and to the extremists”. Penso che il governo pachistano stia sostanzialmente abdicando a favore di talebani ed estremisti.
Dicono alcuni: il Pakistan non sta collassando perché è già collassato da tempo e ora tira avanti barcamenandosi con le emergenze giornaliere senza potersi opporre con reale efficacia. Dicono altri: il Pakistan non è al collasso, c'è soltanto un effetto distorsivo dei media. Proprio come succede nel vicino Afghanistan, che non è una nazione intera in guerra e dove in fondo l'80 per cento degli attacchi dei talebani si concentra soltanto sul disgraziatissimo dieci per cento della popolazione.
Il Pakistan non è così vicino al collasso soprattutto perché dall'esterno non glielo permetteranno. Venerdì scorso a Tokyo una conferenza internazionale di paesi donatori – c'erano anche Cina, Iran e Stati Uniti – ha garantito l'arrivo in fretta di 5,5 miliardi di dollari. L'Amministrazione americana già dal 2001 mette cento milioni di dollari ogni mese nelle casse di Islamabad, per reggerla in piedi nelle fatiche della guerra al terrore. Ma lo stesso, nonostante gli aiuti, i jet da combattimento e i dollari, si vedono nel paese enormi crepe che si allargano e promettono guai. Oltre a quella dell'espansione da nord-ovest, le prossime e più evidenti sono quattro.
L'immenso porto di Karachi, nel sud del paese, fino a oggi creduto al sicuro dalla violenza talebana, sta per diventare il prossimo epicentro degli scontri. La metropoli da quindici milioni di abitanti è popolata da una enclave agguerrita di pashtun, gli stessi clan etnici del nord che fanno la guerra in Afghanistan contro gli americani e la Nato e in Pakistan contro l'esercito governativo. I talebani, dice un rapporto del commissario capo della città, sono in modalità “dormiente”: hanno occupato case, negozi, interi quartieri e tutta la periferia della città, ma stanno buoni, perché Karachi è troppo importante per loro come snodo dei traffici. Lo è anche per la Nato: il 75 per cento dei rifornimenti passa in entrata dall'imboccatura del porto, dove gli americani hanno installato senza farsi troppo vedere due enormi rivelatori di materiale radioattivo, per scoprire se qualcosa è invece in uscita. I talebani non vogliono ancora scatenare la violenza. Ma due settimane fa un Predator americano ha colpito con i suoi missili un convoglio del comandante dei talebani pachistani, Baitullah Mehsud, dalla parte opposta del paese, lassù nel Waziristan, senza però riuscire a ucciderlo. Ora Mehsud avrebbe deciso di rompere per rappresaglia la tregua non scritta di Karachi.
La provincia più importante e popolosa delle quattro che formano il Pakistan è il centrale Punjab, relativamente immune all'estremismo rozzo delle aree tribali. Ora però i terroristi punjabi, più colti, più difficili da scoprire e tecnologicamente più avanzati dei pashtun, si sono uniti alla guerra. Sono i terroristi agili con zainetti e scarpe da tennis che hanno attaccato l'Accademia di polizia di Lahore, e prima hanno teso un'imboscata alla Nazionale di cricket del Bangladesh. La loro specialità è la guerriglia urbana in stile Mumbai, e sono in cima alle preoccupazioni dei soldati e del governo. E anche della Nato, che sente il loro accento nelle intercettazioni radio sopra l'Afghanistan.
Quetta, capoluogo del Baluchistan a ovest, è una zona dichiarata “off limits” dal governo, dove giornalisti e curiosi non possono andare. Secondo gli ufficiali della Nato e secondo il governo afghano Quetta ospita i comandanti dei talebani afghani, che fanno comodamente la guerra al sicuro dietro il confine. Il presidente Hamid Karzai si è spinto fino a dare la posizione Gps, l'indirizzo e i numeri di telefono del Mullah Omar, il comandante supremo dei talebani. Islamabad fa finta di non sentire, la Cia morde il freno e secondo il New York Times ha proposto all'Amministrazione Obama di bombardare.
Infine, l'ultima linea di frattura da tenere d'occhio è la politica pachistana. Il presidente Asif Ali Zardari, che avrebbe dovuto assicurare al paese il recupero democratico dopo gli otto anni di potere del generale Musharraf, sta facendo rimpiangere il suo predecessore. Dopo che i terroristi hanno sbriciolato con un camion-bomba la facciata dell'Hotel Marriott di Islamabad durante un ricevimento a cui lui non ha presenziato soltanto per caso, il presidente ha trasformato la zona governativa della capitale in una Zona verde fortificata sul modello iracheno – non ha tutti i torti. Non esce nemmeno più per festeggiare le celebrazioni religiose, come almeno faceva Musharraf e passa il tempo, secondo indiscrezioni, a insultare il suo staff. Il suo rivale, Nawaz Sharif, è molto più forte e minaccia entro l'estate di prendergli il posto.
La differenza tra Zardari e Sharif è che il secondo, fortemente sponsorizzato dai sauditi, vuole sfilarsi dalla guerra contro i talebani – forse prima che bussino alla porta del palazzo – e troncare bruscamente “qualsiasi ingerenza americana nel paese”.