Vittorio Da Rold, Il Sole 24 ore, 11 maggio 2009,
La condanna a otto anni inflitta in primo grado a Roxana Saberi, la giornalista americana accusata di spionaggio, è stata ridotta a due anni, con sospensione condizionale della pena, perché gli Stati Uniti sono stati considerati un Paese non ostile. Lo ha detto uno degli avvocati della giornalista irano-americana, Abdolsamad Khorramshahi. «Poiché con gli Usa non siamo in guerra - ha sottolineato il legale - la pena è stata ridotta».
Certo che Usa e Iran non siano in guerra è una verità evidente, che però dimentica che da 30 anni le relazioni diplomatiche di Teheran con Washington sono congelate e, secondo la famosa frase del fondatore della Repubblica islamica, l'aytollah Khomeini, «l'America è (e resta per la maggioranza della dirigenza iraniana) il Grande Satana». La domanda è semplice: la sentenza di appello sulla Saberi può essere considerata politicamente orientata e una svolta verso gli Stati Uniti? Probabilmente è solo una messaggio di cauta apertura di credito all'amministrazione Obama, secondo cui la dirigenza iraniana è pronta ad ascoltare proposte concrete che ancora non sono state fatte a Teheran sul dossier nucleare, sul coinvolgimento in Afghansitan e sulla collaborazione sul tema energetico.
Un segnale di apertura in vista delle elezioni presidenziali che si terranno il 12 giugno e che vedono il presidente conservatore Ahmadinejad lanciato verso la vittoria al primo turno, salvo un colpo di reni del candidato riformatore Mussavi. Solo dopo il risultato delle urne, gli Stati Uniti potranno stringere i tempi verso una normalizzazione dei rapporti; prima qualsiasi mossa sarebbe usata strumentalmente in campagna elettorale come un cedimento occidentale, e darebbe fiato alle posizioni più estreme. Forse Teheran ha bisogno di tempo, anche se l'aggravarsi della situazione pakistana e afghana potrebbe spingere per un accelerazione, in vista dell'apertura di colloqui diretti tra i due stati.