La lettera di Libera, la ragazza che riesce a far uscire la sua corrispondenza da Teheran
Ma le condizioni sono diverse perché il dissenso sovietico e dei paesi europei collegati a quell'impero è stato seguito con tempi corrispondenti un po' agli esordi. Nel senso che in Italia i socialisti e qualche intellettuale tenevano d'occhio il rumore del grande potere sovietico già dagli anni molto precedenti alla sua crisi. Già alla fine degli anni '50 dopo l'Ungheria con i primi scritti scismatici di Sakarov. Sakarov era ancora il grande scienziato celebrato per i suoi studi di fisica nucleare. Nel '57-'58 cominciò a pubblicare dei saggi a proposito della necessità di intese proprio sulle materie della sua ricerca cioè quella collegata al nucleare civil-militare che suggerivano aperture dell'Unione Sovietica verso le realtà contrapposte negli Stati Uniti, dell'Alleanza Atlantica e quelle, vicinissime, dell'Europa occidentale. Quindi è stata una lunga corrispondenza fatta all'inizio di dettagli. Negli anni '60, esattamente poco dopo l'Ungheria, Feltrinelli pubblica in prima assoluta il “Dottor Zivago”di Boris Pasternak. Il Dottor Zivago in Italia arriva attraverso persone che cominciano proprio su quella vicenda a formarsi le ossa come studiosi del dissenso. Penso a Valerio Riva, che ne fu il tramite diretto e maggiore, ma anche a Sergio D'Angelo che viveva allora a Mosca, dove aveva compiti di contatti commerciali con le grandi associazioni della società sovietica – parlo degli uffici del commercio internazionale a Mosca. Si definisce così una prima generazione di studiosi del dissenso e devono essere di quegli anni dei letterati come lo fu per esempio Angelo Maria Ripellino che era un finissimo slavista. Egli, esaminando via via le novità di quanto si pubblicava della narrativa a Praga e a Mosca – erano i suoi due scali di studioso e di ricercatore – capì che nel grande ventre dell'Impero vi erano movimenti peristaltici, non c'era il silenzio assoluto che molti ritenevano dominare.
I compiti li vedo analoghi nello spirito. Ma devo dire che proprio su questo punto sento paradossalmente molto penalizzante l'assenza di uno statista come Bettino Craxi.
Applicazione pessimistica, però, perché in quel bilanciamento l'Occidente con le sue remore democratiche, che erano delle remore in termini militari, in termini di investimenti, in termini di correttezza, avrebbe finito col logorarsi. A quel punto si inventò lo Scudo spaziale per far spendere a Mosca quello che Mosca non aveva più da spendere e quindi in qualche modo si ebbe un esempio geniale di “capitalismo applicato”: applicazione in materia, appunto, di equilibri strategici militari “un di più” senza il quale l'Unione Sovietica veniva ad essere vulnerabile e allo stesso tempo non ce la faceva a costruirsi un sistema spaziale di protezione.
Però quello che all'Europa e gli Stati Uniti mancava era la figura di un leader, e quel vuoto venne riempito da Bettino Craxi. Egli optò per una politica di rottura, come leader del socialismo e del governo italiano. E lo fece a fronte di una Internazionale Socialista“collaborazionista”: lo stesso Willy Brandt, quello che aveva incantato il mondo resistendo al Muro di Berlino, si era poi "piegato" all'Ostpolitik, per non dire degli altri leader socialisti del tempo, compreso Olof Palme e quindi la Svezia, i laburisti inglesi e Mitterand in Francia).
Ecco, in questo isolamento, arrivato a guidare l'Italia - dopo averlo fatto come leader socialista tra socialisti scettici e infrangibili - lo ha fatto come primo ministro assumendo, come l'ultimo Ronald Reagan, il ruolo di sostenitore del Dissenso in Europa orientale.
Oggi Obama, con la sorpresa di tutti coloro che pensavano che avrebbe cavalcato la situazione iraniana -anche perché lì è in gioco la questione nucleare in Medio Oriente- ci dice: “Va bene, io comunque tratto con chi è al potere”. Sì, si dice preoccupato però insostanza non si è schierato. Chi chiede ci si schieri è il Repubblicano che ès tato battuto, John McCain, ma lo fa più per il loggione della politica interna (credo) che per una sua profonda convinzione.
Nessuno in Occidente dà l'impressione di volersi impegnare a sostegno del Nuovo Dissenso iraniano. Staranno certamente lavorando alcuni singoli, alcune influenze verranno esercitate a Vienna sull'Agenzia atomica perché le prescrizioni per Teheran sul nucleare siano sempre più stringenti e così via. Ma non c'è quel lavoro, quell'amore e quella passione che spingono a organizzare, a convogliare energie ed in parte anche a finanziare.
Quello che si stava preparando in Iran era talmente evidente, quasi con caratteri cubitali, che ho approfittato di una intervista con Antonio Cariochi, che è uno studioso, uno storico e un giornalista molto attento, che scrisse l'intervista bellissima su Pelikan “Io esule indigesto” pubblicato da Reset. Egli mi chiese alcune riflessioni sull'attualità della battaglia per il Dissenso: si era a trent'anni dalla Biennale del dissenso (diversi mesi fa) e presi al balzo la palla che mi alzava il “Corriere della Sera” e dissi: “Beh, si potrebbe organizzare quanto prima un'analoga azione per sostenere il dissenso islamico. In primo luogo, è il caso dell' Iran, dove non si entra solo nella vicenda del terrorismo, ma si entra anche ormai visibilmente sulla condizione della donna, sulle libertà individuali, sull'applicazione o meno delle leggi teocratiche. Dobbiamo far di tutto per dare a loro quell'accesso, quella circolazione di informazioni. Tral'altro tutto è diventato molto più semplice perché c'è la grande rete, c'è tutto quello che nei decenni ormai lontani del dissenso nell'Unione Sovietica e nei paesi del suo impero europeo non c'era. Allora si doveva procedere con i Samisdat e il contrabbando di libri, di opere d'arte, di testi letterari, come nel caso del Dottor Zivago o dei libri di Solgenitsyn più tardi. Oggi in fondo è anche più facile. Però ci vuole una istituzione che lo faccia. Lo vorrà fare la Biennale di Venezia? Io ve lo auguro.
Forse Cacciari sarebbe d'accordo però lo vedo preso da altri problemi: far uscire ogni anno a settembre la “mostra del cinema” con l'arrivo dei divi, far parlare delle bizzarrie delle arti visive. Quell'attenzione, quel progetto e quell'appoggio che fu quello del '77-'78 lo vedo/non lo vedo, ma comunque sta alla Biennale e ai suoi dirigenti esprimersi”.
Altro episodio. Un certo giorno dopo l'inizio della campagna elettorale americana, mi contattò Francesco Villari. Egli è uno storico, figlio del Villari che influenzò profondamente il convegno del Manifesto che precedette di tregiorni l'apertura della Biennale del Dissenso nel ‘77. Villari padre cercava di promuovere la tesi della “riformabilità del sistema” contro la tesi della Biennale per cui il“sistema stesso era il problema”.
Villari figlio mi chiese invece di incontrare insieme la signora Marcucci, che fece parte della Regione Toscana (mi pare vice presidente) ed è la proprietaria di un sistema televisivo che ha comprato e gestito delle televisioni libere in Gran Bretagna. La dottoressa è stata incaricata dalla Fondazione Kennedy (siamo nel settore del partito democratico americano) di organizzare in Italia la Fondazione stessa, che si è dotata di una sede a Roma e una a Milano. La dottoressa Marcucci e noi due abbiamo proposto di realizzare prima di tutto un desk sulla questione iraniana e poi delle iniziative di studio ed operative.
Come sappiamo, esiste un diffuso criticismo verso la politica iraniana in tutta Europa ed anche in Italia e pensavamo che il nostro progetto fosse corrisposto dalla Fondazione, che ha sostenuto con entusiasmo la candidatura di Obama alla presidenza. Tuttavia, nonostante le riunioni preparatorie, la nostra iniziativa è stata bloccata e rimandata a tempi migliori.
Però staremo a vedere, tutto può accadere ancora. Io non credo che questi prossimi siano i giorni della spallata al regime perché, purtroppo, non vedo il leader in grado di darla questa benedetta spallata!
Tutto è possibile, però. E per valutare tutto questo le lettere di quella ragazza sono più importanti delle notizie ufficiali delle agenzie. O si è lì, e questo si capisce dagli “uomini neri” dalle divise nere o da altri dettagli che racconta lei, o è molto difficile misurare il livello di "erosione" del regime. Ritengo che l'apparato repressivo sia ancora molto forte – questi sono giudizi sommari che sparo con un po' di temerarietà perché non sono stato in quel Paese da molti anni – temo che sia ancora limitata al contesto urbano l'opposizione. Nel profondo della Persia, nei villaggi, nella Persia profonda, la teocrazia possiede ancora molte carte e molto sostegno.
Penso che quando i regimi gettano la maschera – questo è il caso, i motociclisti neri, gli scarafaggi a due ruote – e rincorrono materialmente, colpiscono, feriscono gli oppositori (e talvolta anche peggio), si entra in un tempo in cui ogni occasione per indebolire il regime è da cogliere.