I manifestanti non sono mai stati così tanti dal quel sabato 20 giugno finito in tragedia, il giorno del martirio di Neda e dei suoi compagni. Sono migliaia, fuori e dentro l'ateneo. Rafsanjani dice che «tutti i manifestanti arrestati devono essere liberati»? Loro urlano la stessa cosa e inneggiano al “loro presidente” Mir Hossein Mousavi. Interrompono il sermone con l'invocazione “Allahu Akbar” e il “Morte al dittatore” gridato ogni notte dai tetti della città. Finita la preghiera la polizia in assetto anti-sommossa carica e spara lacrimogeni. La folla si disperde ma poco dopo nuovi scontri agitano il cuore della città. Almeno 15 dimostranti vengono arrestati. Shadi Sadr, attivista per i diritti delle donne, sarebbe stata picchiata e sequestrata dai miliziani mentre si stava recando all'università.
Ieri però è stata una giornata di liberazione, uno sfogo lungamente represso e atteso con ansia dall'Onda verde. Appena è arrivata la notizia che Rafsanjani avrebbe guidato la preghiera del venerdì, è partito il tam-tam: «Torniamo in piazza, facciamoci vedere». Mir Hossein Mousavi a tutti ha dato appuntamento all'università, lui racconta di aver sentito «l'obbligo di rispondere all'invito dei sostenitori nel cammino di salvaguardia dei legittimi diritti di una vita onorevole e libera». L'obbligo vero per lui è farsi vedere, dopo un mese nel quale è stato poco più di una bacheca su Facebook. Deciso a non retrocedere ma incapace di andare avanti. Alla vigilia, raccontano al Riformista fonti da Teheran, l'eccitazione per l'evento è giunta al parossismo. Al punto da occultare i tanti interrogativi che ha suscitato l'attesa per questo strano sermone. E che neanche la performance di Rafsanjani hanno chiarito del tutto. Rafsanjani sfida il regime o tenta di salvarlo?Ieri non ha preso la parola un dissidente, ma l'uomo più rappresentativo della Repubblica islamica. Un uomo per tutte le stagioni: oggi eminenza grigia dell'opposizione, ieri presidente conservatore. Al contempo “Shah Akbar”, multimiliardario simbolo dell'opulenza della casta post-rivoluzionaria e Ayatollah capace di giocare a Qom una partita teologica-politica per destituire la Guida Suprema. Rafsanjani - ancor più di Mousavi - veste a fatica i panni dell'uomo del cambiamento. A lui però si deve affidare oggi il popolo riformista. E a lui la Guida Suprema ha affidato la preghiera più ascoltata d'Iran, riservata dal giorno delle elezioni a predicatori allineati e vicini a Mahmud Ahmadinejad. Una mossa suicida?
Un azzardo forse necessario, che testimonia della debolezza del regime e suggerisce una lettura diversa del sermone di Rafsanjani: premessa di un compromesso più che sfida. Rafsanjani ai vecchi compagni ricorda le fondamenta del potere rivoluzionario: «è vero che il nostro è un governo islamico, ma siamo una Repubblica...occorre coniugare Repubblica con islam. Se non ci basiamo sul potere del popolo non saremo mai islamici». La Guida Suprema non ce la fa a chiudere la partita con la negazione e la violenza di Stato.
Perché la crisi ha scosso la legittimità del sistema e ha spaccato l'establishment in ogni suo corpo fondamentale, dai pasdaran al clero. Se lo scontro non può essere azzerato, va ricondotto entro gli steccati della Repubblica. Non a caso l'annunciata nascita di un fronte dell'opposizione è stata accolta con sollievo dai falchi più avvertiti.
Ieri sera a Teheran queste erano solo ipotesi a margine di una nuova, sorprendente giornata di lotta. Nessuno è in grado di giurare sulle future mosse della leadership riformista. Né se il popolo in piazza è pronto a farsi condurre docilmente verso una soluzione politica della crisi, mediata nei palazzi. Di certo c'è solo che la partita - da molti prematuramente data per chiusa con la vittoria della “reazione” - rimane aperta. E ancora attende un finale.