Gianni Riotta, Il Sole 24ore, 11 luglio 2009,
Nel 1989, per conto del Corriere della Sera, andai a parlare con un giovane economista che aveva appena pubblicato un saggio dal titolo insolito The age of diminished expectations, l'era delle speranze ridotte. Oggi Krugman è il celebre studioso premio Nobel che, dal suo foro sul New York Times e da innumerevoli siti, ammonisce sui pericoli del nostro tempo, ancora formidabile quando parla di economia, discutibile quando la foga lo trascina sul terreno onnivoro della polemica.
Allora, rileggo sul logoro taccuino, si presentava «barbuto e con i sandali», geniale anticonformista. La sua tesi, argomentata con dovizia di dati e poi comprovata dalla durezza dei fatti, proponeva una lezione che la società occidentale, non solo l'americana, non era affatto pronta ad accettare e che invece a me, da pochissimo felice e preoccupato padre, suonò convincente. Che cioè le future generazioni non avrebbero più potuto contare su un tenore di vita sempre migliore rispetto a padri e nonni... A ben guardare ora, quel 1989, giusto 20 anni fa, fu un anno seminale... Le idee anticipano e accompagnano sempre la storia del mondo: in contemporanea al saggio di Krugman, il filosofo Francis Fukuyama scrive il saggio che tanto scosse le coscienze in quel fatale '89, The end of history, la fine della storia. È oggi persino comico vedere come Fukuyama sia stato maltrattato dal dibattito caduco. Dapprima la sua teoria - morto il comunismo non resta che l'ideologia liberale -, da acuto tentativo di interpretare il mondo del dopo Guerra Fredda, divenne moda da salotto, poi fu caricaturata in una specie di elementare vignetta tutta bianca in cui nulla più poteva accadere, fermi tutti morta la storia.
Fukuyama invece aveva per primo intuito che le ideologie nate via via dalla Rivoluzione francese, o in reazione ad essa, e alla cui ombra erano sorti la rivoluzione industriale, il liberalismo in chiave europea o americana, il conservatorismo classico, il socialismo, il comunismo, la socialdemocrazia, i fascismi, il New Deal e le interpretazione del welfare alla Keynes o alla scandinava, insieme declinavano all'alba informatica, atomizzata e globale del XXI secolo... Perché quel 1989 segnò anche l'era della globalizzazione, aperta dal grande Deng Xiao Ping - che dice ai cinesi di arricchirsi e riscopre le virtù classiche asiatiche del lavoro e della comunità - e dalla foga con cui piccoli affamati paesi, dalla Sud Corea a Hong Kong, sperano di vincere negli affari. Nei garage della Silicon Valley ragazzini come Jobs e Wozniak intuiscono che il computer, inventato per triturare numeri per gigantesche burocrazie, può invece comunicare parole per individui e che la Darpanet, sistema nervoso militare via cavo progettato per resistere alle bombe termonucleari russe, può evolvere in internet e diffondere notizie, ricette della nonna, bilanci e lettere d'amore.
Nel tumultuoso passare di una generazione, un miliardo di esseri umani muove dalla fame a un lavoro decente e mezzo miliardo di loro, tra India e Cina, muta da contadini a ceto medio. Ieri una ciotola di riso era il sogno, oggi lo è una borsa Fendi. La velocità del mutamento travolge gli esperti. Nel saggio The end of work, la fine del lavoro, del 1995, Jeremy Rifkin preconizza fosco un mondo senza lavoro, giusto mentre Robert Rubin, segretario del Tesoro con il presidente Bill Clinton e veterano di Goldman Sachs, contribuisce a creare una dozzina di milioni di posti negli Usa e il pianeta intero lavora con una furia senza precedenti. È la speranza di un nuovo ordine mondiale che viene però spezzata dalle fiamme su Washington e New York dell'11 settembre 2001, culminate nelle guerre in Afghanistan e Iraq mentre la Russia, ricca di petrolio, e la Cina, ricca di lavoro, tornano protagoniste.
Nel contesto di queste idee, di questi dubbi e angosce, matura e scoppia la crisi finanziaria ed economica del 2008. Provare a spiegarla solo in base a criteri moralistici, gli americani cicale il resto del mondo formiche (e se mai gli americani interpretavano negli anni del boom la favola antica in modo bizzarro, consumando sì da cicale ma sgobbando da formiche!), o solo economici e giuridici, è fallace. La corsa di quello che il consigliere di Reagan, il falco Luttwak, per primo chiamò "turbocapitalismo" dalle colonne della London Review of books e la mancanza di regole per il lassismo di Rubin e del presidente della Federal Reserve Alan Greenspan si spiegano solo partendo dall'equilibrio precario della geopolitica 2000. Certo, d'intesa con Greenspan, già nel 1997 Rubin contrastò i freni ai derivati proposti da Brooksley Born, l'avvocato femminista a capo della Commodity Futures Trading Commission: ma davvero qualcuno ritiene che quei poveri legacci avrebbero fermato la piena della storia?
La foga con cui economisti e altri studiosi si sono affrontati in questo dibattito del Sole 24 Ore, magistralmente aperto e chiuso da Guido Tabellini e con interventi internazionali d'eccellenza, darà spazio e alimento a ogni teoria corrente, keynesiani e anti, regolatori e liberisti, classici e innovatori. Ciascuno troverà radici alle proprie teorie. Se manca ancora un punto d'equilibrio condiviso è perché il quadro teorico seguito alla fine della Guerra Fredda resta in movimento, il mondo non ha una sintesi né di idee, né di impero, né di forza consolidate e restiamo in balia delle nostre pulsioni alla crescita, moltiplicate e confuse dal pantografo globale. Dal dibattito innescato da Tabellini e irradiato da firme insigni cito solo l'esemplare saggio del presidente Carlo Azeglio Ciampi che si chiede amaro, perché ci siam smarriti? Non chiedete la risposta solo agli economisti, né solo date a loro la colpa. La responsabilità è politica e storica, di ciascuno di noi e dei nostri leader, tutti scolari confusi all'alba del XXI secolo. Come diceva Orazio nella sua Epistola all'amico tormentato Bullazio Strenua nos exercet inertia: navibus atque quadrigis petimus bene vivere... Un'inerzia irriducibile ci frustra e andiamo per mari e terre inseguendo la felicità…