Ernesto Galli della Loggia, Corriere della Sera, 14 agosto 2009,
A differenza del ministro Bondi io penso che coloro che esercitano un mestiere intellettuale- umanistico (preferisco chiamarli così piuttosto che con l'ambiguo termine di «intellettuali») non abbiano né debbano avere alcuna vocazione a un ruolo pubblico particolare: né destruens né construens che sia. Come tutti, dunque, essi possono scegliersi la parte che vogliono, per esempio scendere direttamente in politica o non farlo. Oppure possono partecipare o no a una fondazione culturale di un partito o di un leader politico. Il tutto senza che ciò influisca in alcun modo nel giudizio da darsi sui loro pensieri o i loro scritti. Sono stati i regimi e gli uomini politici più esecrabili quelli che hanno chiesto a coloro di cui stiamo parlando di essere obbligatoriamente «costruttivi » per evitare di venir considerati dei «piagnoni » (o magari correre rischi peggiori). Ma detto questo aggiungo subito che non è sull'eterna diatriba circa il ruolo dei colti in politica che verte la discussione che ha preso le mosse dallo scellerato programma approntato per le celebrazioni dell'anniversario dell'Unità d'Italia.
È altro in realtà ciò di cui si tratta, ed è altro ciò che è in gioco. Ciò di cui si tratta è l'esito della politica quando la medesima perde ogni retroterra culturale, quel retroterra che essa deve necessariamente avere di per sé, deve essere capace di avere in quanto tale, senza pensare di poterlo chiedere in prestito quando le serve ai cosiddetti intellettuali. Qui per l'appunto, invece, è avvenuta in Italia una cesura drammatica, ed è di questa cesura che testimonia clamorosamente l'incredibile spezzatino edilizio pensato per il 2011. Cioè del fatto che dopo il grande crollo del 1992-94 le classi dirigenti politiche di questo Paese hanno virtualmente troncato ogni legame con qualunque retroterra culturale. Il retroterra culturale di cui parlo ha un contenuto e un nome: la storia d'Italia nella molteplicità delle sue espressioni (politica, sociale, artistica, religiosa, letteraria e via enumerando).
È di questa che oggi, ma non da oggi, la politica di casa nostra e i suoi partiti sembrano non volere sapere (e non sapere) più nulla, quasi che la cosa fosse loro indifferente: della storia d'Italia, cioè dell'identità complessa, unitaria e segmentata, di queste contrade, altissima e miserabile ma sempre struggente per chi le vive e le sente come una patria. La politica italiana e i suoi attori di destra come di sinistra appaiono incapaci di leggere la vicenda del Paese sul tempo lungo, di coglierne i retroterra lontani, le implicazioni profonde, di immaginarne le prospettive. Non sono cose che gli interessano. Così come partiti e capi politici non dimostrano alcun interesse, e quindi ancor meno capacità, di interpretare se stessi e il proprio ruolo nel quadro di una tale lettura, al fine di desumerne lineamenti e compiti propri. In Italia la politica non riesce a esprimere alcun senso vero di mission per il Paese, e dunque nessuna retorica «alta» nel suo discorso — a differenza di quanto avviene per esempio in Paesi come gli Stati Uniti e la Francia — proprio perché le manca questo retroterra storico che diventi coscienza del proprio ruolo.
Il risultato è che da quindici anni la politica italiana non riesce a porsi con la società nazionale in una relazione vera e reale che non sia quella puramente estrinseca del momento elettorale. Nel quale, non a caso, quasi tutti i partiti o gli schieramenti, poi, cambiano nome a ogni tornata, a riprova della loro mancanza di vere radici. Fa eccezione a tutto ciò, paradossalmente, come già ho avuto modo di dire, solo la Lega. La quale, lei sì, è sempre se stessa, fedele al suo nome e a una lettura forte della storia d'Italia, che esiste, e come!, nel suo implacabile giudizio negativo. È precisamente l'impossibilità di avere un rapporto con il passato del Paese, — innanzi tutto per esempio cominciando una buona volta a ripensare la propria origine nel grande trauma rimosso del '92-'94 — ciò che determina il carattere intimamente provvisorio che non cessa di emanare dalla cosiddetta seconda Repubblica: l'instabilità e mutevolezza di fondo che si avverte sempre, impalpabili o clamorose, in ogni suo aspetto, in ogni suo partito, in ogni suo leader, in ogni suo equilibrio politico.
Il programma per il 2011 è solo l'espressione tra il patetico e il grottesco di tutto questo: come può mai celebrare la nascita d'Italia, alla fin fine, chi in un senso profondo non sa neppure che cosa realmente essa sia?
Data: 2009-08-17
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