Mario Tozzi, La Stampa, 18 agosto 2009, Cosa perdiamo quando un ettaro di bosco viene bruciato? Di cosa ci priviamo ogni volta che una foresta va perduta? E, soprattutto, che danni permanenti provoca il fuoco e, in ultima analisi, a chi conviene? Oltre un milione di ettari di aree verdi è andato bruciato in Italia negli ultimi nove anni, mentre l’estate in corso rischia di diventare la peggiore, anche se, per fortuna, nessuno più invoca ipotesi fantascientifiche come l’autocombustione per spiegarne la ragione.
Il fuoco viene appiccato da criminali (che non è giusto chiamare piromani, come fossero individui un po’ pazzi) per ragioni ben precise di interesse: dove passa il fuoco non crescono più foreste, ma nuove case, palazzi, edifici. E sappiamo anche come si dovrebbe agire: quando un criminale del fuoco viene colto in flagrante e punito allora in quel territorio il fenomeno cessa o si riduce drasticamente, parallelamente allo stesso scomparire dell’impunità. L’isola d'Elba è oggi sostanzialmente libera dal fuoco dopo i gravissimi incendi degli anni precedenti (che fecero anche alcune vittime), grazie in primo luogo all’opera di intelligence del Corpo Forestale e del Parco Nazionale, che hanno indagato e colto sul fatto almeno uno dei criminali che appiccavano il fuoco. Tanto è bastato perché il numero dei focolai scendesse da oltre 200 a meno di venti all’anno. Tremilacinquecento persone arrestate dal 2000 a oggi e pene più severe (fino a oltre dieci anni di carcere) non sono però ancora bastate di fronte agli enormi interessi in gioco nei territori di pregio.
Ma ci sono altre ragioni, come la mancanza di manutenzione del territorio stesso, in particolare del sottobosco, specie dopo primavere così piovose come quella appena passata, che ha aumentato la massa verde a disposizione delle fiamme. E il surriscaldamento climatico in atto, con il conseguente rinsecchimento di quella stessa massa così copiosamente generata, incrementa il pericolo. In questo caso cura e manutenzione nel periodo primaverile sarebbero già sufficienti per abbassare il rischio. In Italia sarebbe anche obbligatorio il catasto degli incendi: ciascun comune deve censire le aree incendiate e impedire lì ogni costruzione di qualsiasi tipo, ma se non c’è catasto è poi difficile dimostrare il pregio precedente di un’area divenuta poi irriconoscibile.
Non è un caso che i comuni maggiormente inadempienti siano quelli delle regioni costiere, quelli più appetiti dalla speculazione: Sardegna, Toscana e Lazio. E’ bene ricordare, a chi sembra fare finta di niente, che, dal 2000, non è possibile intervenire in alcun modo sui terreni bruciati per almeno 15 anni. Ed è bene ricordare a tutti che non sono i Canadair a scongiurare gli incendi: quando intervengono i mezzi aerei il fuoco ha già vinto, perché la prevenzione la si mette in pratica a terra prima che il peggio accada. Affidarsi al soccorso dal cielo implica già un severo errore di prospettiva e delega un compito che non può essere solo della Protezione Civile.
Quello che costa un incendio non è sempre chiaro a tutti. Un incendio devastante costa al cittadino 5.500 euro per ogni ettaro bruciato, se non contiamo, perché difficile farlo, gli altri danni permanenti e le specie viventi sterminate (centinaia di mammiferi e uccelli, milioni di insetti, migliaia di rettili per ogni ettaro). Ma quello economico è solo un aspetto che viene peraltro amplificato in seguito: il fuoco non ha solo un percorso superficiale, ma anche uno sotterraneo, che corre qualche decimetro sotto terra, che intacca anche le radici. Così il territorio bruciato resta preda delle piogge invernali e privo di protezione contro il dissesto idrogeologico: in pratica è come se il fuoco avesse colpito due volte. Per ricostituire una foresta di pregio (come quelle di faggio del nostro Appennino) ci vogliono cento anni, almeno trenta per riavere una pineta. Ma mentre gli speculatori ne conoscono bene il prezzo, quasi nessuno sembra avere chiaro in testa il valore intrinseco di un albero.