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NEW LABOUR IN CRISI D’IDENTITA’

Gordon Brown sempre più debole in un partito che non trova più il momentum progressista
di Simona Bonfante

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È stata una vittoria di Gordon Brown ed una sconfitta di David Cameron: il voto con cui martedì Westminster ha respinto la "provocazione" conservatrice di sottoporre il trattato europeo di Lisbona a referendum è stata una indubbia vittoria parlamentare, per la maggioranza di governo, ma per il New Labour si è trattato probabilmente della più clamorosa sconfitta politica della sua storia decennale.
Nel 1994, l'Europa era, per il New Labour di Tony Blair e Gordon Brown, la causa progressista che avrebbe liberato l'Inghilterra del suo euroscetticismo epidermico, reso ormai "anti-storico" dall'evoluzione globale del mondo.
Più che un europeismo ideale, quello sposato dal New Labour si è qualificato sin dall'inizio come un europeismo delle opportunità, una strategia positiva e ambiziosa per far superare alla Gran Bretagna la sindrome del cugino spocchioso che - a ragione - mal tollera le prassi borboniche dell'eurocrazia, facendo pesare la propria "eccezionalità" con una talvolta odiosa politica fatta di distinguo, sconti e vantaggi vari.
Blair sapeva bene che convincere gli inglesi che l'Europa potesse costituire un'opportunità, contrariamente a quanto era stato fatto loro credere per decenni, sarebbe stata un'impresa titanica. Ed infatti, l'ostilità minacciata dal principale gruppo editoriale britannico, il News of World di Rupert Murdoch, contro l'allora giovane leader della modernizzazione laburista, è stata sufficiente a ricondurre la leadership del partito nei ranghi di una temperata euro-indifferenza. Con buona pace di quanti, nel Labour, cominiciavano già a credere di essere ad un passo da una svolta politica storica. Nel partito si consuma quindi una delusione, temperata dalla consapevolezza che per realizzare il grande progetto di modernizzazione, fosse necessario vincere le elezioni e che, per vincere le elezioni - le prime, le seconde, e persino le terze - di Europa non fosse proprio il caso di parlare. Poiché se i tre mandati di governo laburisti sono stati capaci di rivoltare il paese come un calzino, l'aspetto sul quale non si è inciso di una virgola è proprio l'atteggiamento degli inglesi verso l'Europa.
Un errore, evidentemente, quello del partito di governo. Perché è adesso che il Labour paga il conto del cedimento. Adesso che si tratta di ratificare un trattato che il Primo Ministro Gordon Brown ha firmato di suo pugno, insieme ai colleghi dei 27 stati membri, pochi mesi orsono e che deve ora far digerire ai cittadini, convincendoli che si tratta di poco più che di un maquillage dell'esistente e che dunque nulla di sostanziale cambierà per la Gran Bretagna cresciuta nell'ultimo decennio ad una velocità di spanne superiore a quella dei paesi-cugini dell'Europa continentale, grazie alle sue tante eccezioni, ai suoi tanti distinguo che, in realtà, il nuovo trattato non dà più per scontati.
È per questo che i conservatori hanno insistito sul referendum, costringendo un Parlamento trasversalmente spaccato a votare su una mozione che in molti avrebbero visto con favore. Se la sconfitta più plateale è stata quella dei Lib-Dem guidati dal giovane leader molto filo-europeista Nick Clegg, che ha imposto al partito un'astensione mal vista da un gruppo di front-benchers che ha infatti scelto di violare la disciplina di partito votando con i conservatori, nelle file del Labour si è consumato un più silenzioso, meno traumatico e tutto sommato contenuto ammutinamento da parte degli europeisti duri e puri. Puri, duri e, si osserva, coerenti non tanto rispetto all'antico ideale internazionalista quanto rispetto alla stessa dottrina europeista "made in New Labour", dunque rispetto al pensiero al quale Gordon Brown dovrebbe essere assai sensibile avendo egli stesso contribuito ad elaborarlo.
Ma i problemi del partito che fu di Tony Blair non si riducono ad una querelle ideale, su una questione assai "tossica" come l'Europa. Il Labour soffre infatti una crisi che persino la rivista-lume dei modernisti, Progress, ha paragonato alla crisi depressiva in cui era precipitato il partito alla fine degli Anni 80, quando si consumava sconfitta su sconfitta e la prospettiva di una vittoria appariva ormai talmente remota da risultare una specie di miraggio.
Poi fu Blair e, come noto, la depressione si trasformò in sovra-eccitazione. Fu un decennio e passa di vittorie. Ma non solo. Fu un decennio in cui il partito tornò a credere a sé stesso, alla sua capacità di incidere, di cambiare le cose, di fare la storia e costruire il futuro. Ebbene, il partito di oggi appare invece talmente smarrito da oscillare tra la tentazione vetro-marxista e l'agiografia acritica del blairismo, senza riuscire a trovare quel codice di de-criptazione che gli permetta di ridare senso alla parola "progresso".
Gordon Brown non fa che invitare all'ottimismo, a sfornare dati economici che sembrerebbero dare certezza di un futuro radioso che assomiglia tantissimo al passato - quello si - radioso, realizzato grazie alla sua politica economica e sociale, Eppure, l'umore del paese non è più quello che ha permesso la reinassance di Londra, di Manchester, e delle decine di periferie divenute l'emblema della Gran Bretagna creativa e positiva che abbiamo tutti amato negli ultimi anni. La Gran Bretagna di oggi esce annichilita dalla crisi dei mutui che hanno costretto un governo liberale come quello di Mr. Brown, a nazionalizzare una banca privata; è la Gran Bretagna in cui le diseguaglianze rimangono al livello che il Labour aveva trovato nel 1997 ed in cui la fiducia per la globalizzazione ha cominciato a lasciare il posto ai timori, ai sospetti che dopo l'esplosione delle opportunità stia adesso mostrando le macerie lasciate da un capitalismo sempre meno controllabile. Insomma, a questo nuovo paese cosa ha da dire il Labour? Poco, a giudicare dallo sconforto che serpeggiava alla Spring Conference che si è tenuta a Birmingham il primo week-end di marzo, e che intendeva in realtà dare la carica all'esercito di militanti e simpatizzanti che si accingono ad affrontare le amministrative del 1 maggio prossimo.
Non sembrava vi fosse aria di vittoria, anzi. I commentatori dei principali quotidiani progressisti hanno dovuto trattenersi dall'esprimere il senso di "precarietà" che sembrava affliggere policymakers e candidati alla vigilia di un voto al quale la leadership non sembra aver saputo dare una connotazione, ondeggiando tra appelli ai valori tradizionali, in un tentativo di rianimazione della ormai disillusa base "old" e una retorica energizzante volta a rinvigorire le file dei modernizzatori che hanno fatto il successo del partito nell'ultimo decennio.
Al Labour serve, forse, una sconfitta per potersi rigenerare davvero. Per poter davvero restituire senso alla missione progressista in nome della quale ha costruito il costrutto filosofico che ha alimentato la piattaforma politica realizzata da Tony Blair. Se non conquisterà un quarto mandato, insomma, non sarà per merito dei conservatori dello pseudo-innovatore David Cameron, sarà solo perché non avrà saputo realizzare appieno il metodo riformista che impone di saper rigenerare innanzitutto se stesso. 








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