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EXIT STRATEGY? NO, GRAZIE
Nonostante le critiche e gli appelli, McCain non abbandona l’Iraq, Clinton non lascia la corsa alla nomination



Per ora il nuovo Watergate, come i più fantasiosi l’avevano frettolosamente definito, non è deflagrato. Allo scandalo passaporti è stata messa la sordina e, forse, rimarrà un episodio marginale di questa infinita campagna elettorale. La violazione di dati personali dei tre candidati alla presidenza, attribuita a tre dipendenti del Dipartimento di Stato, ha suscitato l’indignazione congiunta dei senatori spiati e dello stesso segretario Condoleezza Rice. Ulteriori investigazioni chiariranno se le intrusioni indebite siano semplicemente riconducibili alla malsana curiosità dei dipendenti. Helene Cooper e Micheal Grynbaum, dell’International Herald Tribune,  si limitano a ricordare le analogie con quanto accadde nel 1992, allorché qualcuno al Dipartimento di Stato decise di curiosare nel dossier personale del  candidato presidenziale William Jefferson Clinton. Correvano voci che il giovane Clinton avesse cercato di rinunciare alla cittadinanza per evitare l’arruolamento ai tempi della guerra del Vietnam. Evidentemente, qualche zelante funzionario non resistette alla tentazione di verificare. Storie di torbidi, storie da campagna elettorale.

John McCain, tornato dal suo tour euro-mediorientale, ha riposto il suo chiacchierato passaporto ma ha continuato ad occuparsi di affari internazionali. Nel suo primo significativo discorso sulla politica estera da quando è diventato il candidato ufficiale del Gop alle presidenziali, McCain ha ribadito da Los Angeles la sua intenzione di mantenere le truppe Usa in Afghanistan e soprattutto in Iraq. “Se ritirassimo i nostri militari, quelle regioni del mondo cadrebbero nel caos, ed il loro destino, ma anche il nostro, verrebbe compromesso.”

Mac ha comunque tenuto a marcare la distanza che lo separa dalle scelte dell’amministrazione Bush, invocando la chiusura di Guantanamo, nuove regole sul trattamento dei prigionieri di guerra e degli individui considerati pericolosi per la sicurezza nazionale. “Io detesto la guerra, ma essa può non essere l’opzione peggiore” ha continuato il senatore dell’Arizona, “Noi abbiamo contratto un impegno morale in Iraq e sarebbe un atto di tradimento, indegno del nostro carattere nazionale, abbandonare quelle popolazioni all’orrenda violenza, alla pulizia etnica ed al possibile genocidio che potrebbero far seguito ad un nostro prematuro ed irresponsabile ritiro.” Secondo McCain il surge sta dando buoni risultati e non vi è dunque motivo di mutare strategia.

La visione di McCain è stata difesa dal columnist del Washington Post, Charles Krauthammer, Premio Pulitzer ed eclettico pensatore conservative, che accusa i Democratici di disonestà intellettuale quando tacciano l’avversario di bellicismo. Durante la sua campagna in New Hampshire, a McCain è stato chiesto un parere sulla permanenza delle truppe americane in Iraq, ricorda Krauthammer sul Post, ed egli ha replicato “per quanto mi riguarda, potremmo restarci anche cent’anni”. Da allora, la vulgata liberal ha insistito incessantemente su questo punto, nel tentativo di dipingerlo come un guerrafondaio. Peccato che pochi, o quasi nessuno, abbiano fatto attenzione al seguito della risposta di Mac in quella circostanza: “Siamo rimasti in Giappone per sessant'anni, in Corea per cinquanta…credo sia desiderabile prolungare la nostra presenza laggiù se essa dovesse servire a minimizzare i rischi che gli americani vengano assaliti, feriti o peggio uccisi…non penso sia giusto abbandonare un’area così instabile del mondo”. Un discorso più elaborato di quello di un rude e muscolare american soldier. McCain conosce bene la guerra. Per questo motivo ne ha orrore, conclude Krauthammer.

Cambiando argomento, McCain ha approfondito la issue ambientale, proponendo un sistema “cap and trade(tetto per le emissioni inquinanti e scambio di quote sul mercato internazionale delle emissioni stesse), che dovrebbe coinvolgere Cina ed India. Rispetto al rapporto con gli alleati, il veterano ha auspicato un dialogo aperto e franco con i partner dell’America. Anche qui, i più attenti noteranno un certo criticismo verso l’unilateralismo che permeò il primo mandato dell’attuale inquilino della Casa Bianca.

Il dissociamento morbido da Bush consente a McCain di mantenere un notevole appeal sugli indecisi e gli indipendenti, e persino sulla fascia moderata dell’elettorato Democratico. Il supporto bipartisan su cui può contare supera, secondo un sondaggio condotto da Gallup per Politico, il gradimento raccolto da Obama e Clinton. Particolarmente significativa la prevalenza di Mac nei confronti del giovane senatore Democratico nella decisiva corsa all'elettorato di centro, che presumibilmente deciderà l'esito della partita. Ebbene, in questa fase i McCain Democrats, gli elettori Dems pronti a votare per il senatore dell'Arizona, sono più numerosi degli Obama Republicans, o Obamacans. Senza contare il vantaggio di McCain anche per quanto riguarda l'elettorato indipendente, che gli consente di sottra...


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