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LA MALATTIA OLANDESE

Thomas L. Friedman illustra la “Prima Legge della Petrolpolitica”

Thomas L. Friedman, Foreign Policy

Prezzo del petrolio e libertà di un popolo si muovono sempre in direzioni opposte. È la prima regola della “Petrolpolitica”, la politica del petrolio. E può essere l'assioma per spiegare la nostra era.

Quando mi capitò di sentire il presidente iraniano Ahmadinejad dichiarare che l'Olocausto era un “mito” non potei fare a meno di chiedermi: “Lo avrebbe detto se il prezzo del petrolio fosse stato a 20 dollari il barile invece che a 60?”. E quando sentii il presidente del Venezuela Chavez mandare al diavolo il primo ministro inglese Tony Blair e gridare ai propri sostenitori che gli Stati Uniti – sostenitori del libero commercio nell'area americana – “potevano andare al diavolo”, non potei fare a meno di chiedermi: “Chavez avrebbe detto le stesse cose se il prezzo del petrolio fosse stato a 20 dollari il barile anziché a 60 e il suo paese avesse dovuto sostenersi dando spazio agli imprenditori privati anziché scavando pozzi di petrolio”?

Seguendo gli eventi nel Golfo Persico negli anni scorsi, ho notato che il primo stato del Golfo a tenere elezioni libere e regolari, aperte anche alle donne, il primo stato arabo ad avviare una piena revisione delle leggi sul lavoro per favorire l'occupazione dei propri abitanti e ridurre la dipendenza dalla mano d'opera straniera è stato il Bahrain. Si dà il caso che il Bahrain dovrebbe essere il primo stato arabo ad esaurire i giacimenti di petrolio. Non ho potuto fare a meno di chiedermi: “Ma tutto questo può essere una coincidenza”?

Infine: quando ho visto gli attivisti democratici in Libano respingere fuori dai confini del loro paese le truppe siriane mi sono detto: “È un caso che alla prima, e unica, democrazia del mondo arabo capiti di non avere una goccia di petrolio”?

Un esperimento: provare a esprimere in forma di grafico la correlazione fra prezzo di petrolio e tasso di sviluppo, riforme economiche, rispetto dei diritti civili.
Più riflettevo su questi interrogativi e più mi appariva chiaro che ci doveva essere una correlazione fra il prezzo del petrolio e il tasso di sviluppo, le riforme economiche, il rispetto dei diritti civili in certi paesi. Ne è nato un esperimento: provare a quantificare questa equazione in forma grafica. Indicando su un'asse la media globale del prezzo del petrolio greggio e sull'altro asse il grado di espansione o contrazione della libertà economica e politica di un paese. Usando gli stessi indicatori di una società di ricerca come la Freedom House: il numero di elezioni libere e imparziali, il numero di giornali che aprono o sono costretti a chiudere, il numero di arresti arbitrari, il numero di esponenti riformatori eletti in parlamento e il numero di riforme economiche interrotte o bloccate, il numero di industrie privatizzate o nazionalizzate, ecc.
Sono il primo a riconoscere che non si tratta di un esperimento scientifico, perché la crescita e il declino delle libertà economiche e politiche in una società non sono mai perfettamente quantificabili oggettivamente. Ma è un fatto che, pur con tante imprecisioni, i grafici così assemblati indicano una forte relazione fra il prezzo del petrolio e la crescita della libertà: tanto forte che mi piacerebbe accendere il dibattito enunciando la Prima Legge della Petronomica”.

E la Prima Legge della Petrolpolitica evidenzia quanto segue: negli stati ricchi di petrolio il prezzo del greggio e lo sviluppo delle libertà si muovono sempre in direzioni opposte. Secondo la Prima Legge della Petrolpolitica, più cresce la media globale del prezzo del petrolio greggio e più si erodono la libertà di parola e di stampa, la regolarità delle elezioni, l'indipendenza giudiziaria, il ruolo delle leggi, l'indipendenza dei partiti politici. Più sale il prezzo del petrolio, più i leader dei paesi produttori diventano indifferenti a ciò che il mondo dice e pensa di loro. Inversamente, secondo la Prima Legge della Petrolpolitica, più basso è il prezzo del petrolio, più i paesi petroliferi si muovono verso sistemi politici e società trasparenti, più sono sensibili alle voci delle opposizioni e orientati verso la creazione di strutture legali ed educative che favoriscano la capacità delle persone – uomini e donne – di competere, creare nuove imprese, attrarre investimenti dall'estero. Più scende il prezzo del petrolio, più i leader dei paesi produttori diventano sensibili a quello che all'esterno si pensa di loro.

E vale la pena prestare attenzione al collegamento fra prezzo del petrolio e sviluppo delle libertà particolarmente oggi, di fronte a quella che appare come una crescita globale strutturale del prezzo del greggio. Che potrebbe avere un impatto negativo sugli assetti del mondo post-guerra fredda quale lo abbiamo conosciuto finora. In altre parole, il prezzo del greggio dovrebbe essere ora una preoccupazione quotidiana non solo del Ministro del Tesoro, ma del Segretario di Stato.

Per questa analisi, intendo Paesi petroliferi quelli che non solo dipendono dalla produzione di petrolio per il grosso delle loro esportazioni e del loro prodotto interno lordo, ma che hanno anche istituzioni statali deboli e governi completamente autoritari.
Ai vertici della lista di questi Stati ci sono Azerbaijan, Angola, Ciad, Egitto, Guinea equatoriale, Iran, Kazakistan, Nigeria, Russia, Arabia Saudita, Sudan, Uzbekista e Venezuela. (Stati che hanno una grande quantità di greggio ma che sono ben consolidati, con istituzioni democratiche ed economiche solide già da prima che venisse scoperto il petrolio – per esempio Gran Bretagna. Norvegia e Stati Uniti – non sono soggetti alla Prima Legge della Petrolpolitica).
Gli economisti hanno evidenziato già da tempo l'impatto negativo che l'abbondanza di risorse naturali può avere sulla economia e sulla politica di un paese. L'hanno chiamata la “malattia olandese” o “malattia delle risorse”. Si manifesta nel processo di deindustrializzazione che può derivare dall'improvvisa fortunata scoperta di una risorsa naturale. L'hanno battezzata così in Olanda negli Anni Sessanta dopo il rinvenimento di enormi giacimenti di gas naturale. Nei Paesi con la “malattia olandese” il valore della moneta aumenta, grazie all'improvviso afflusso di contanti da petrolio, oro, gas, diamanti o altre risorse naturali. Questo fa sì che le esportazioni non siano competitive e le importazioni invece molto economiche. I cittadini, ricchi di contanti, iniziano a importare come forsennati; l'industria interna viene smantellata e in breve si giunge alla deindustrializzazione. La “malattia delle risorse” può colpire non solo il livello economico, ma anche influenzare la politica di un Paese, gli investimenti e le priorità educative. Tutto ruota intorno al flusso di petrolio, a chi – e quanto – si avvantaggia da esso: non intorno alla concorrenza, alla innovazione e alla produzione per il mercato reale.

Ma qualche politologo ha studiato anche quando l'abbondanza, in particolare di petrolio, possa colpire lo stesso sistema democratico. Una delle analisi più acute al riguardo è quella di Michael L. Ross della UCLA. Analizzando le statistiche relative a 113 Paesi fra il 1971 e il 1997, Ross ha concluso che “la fiducia di uno Stato per il petrolio o per altri minerali destinati alla esportazione tende a renderlo meno democratico. Questo fenomeno non è causato da altri tipi di esportazione; inoltre non è limitato soltanto agli Stati arabi, al Medio Oriente o all'Africa sub-sahariana né ai piccoli Stati”.

Particolarmente interessante nell'analisi di Ross, è l'indicazione dei meccanismi specifici attraverso i quali l'eccessiva ricchezza da petrolio colpisce la democrazia. In primo luogo – afferma Ross – c'è l'”effetto tassazione”: i governi ricchi di petrolio tendono ad alleggerire le pressioni sociali che altrimenti comporterebbero maggiori responsabilità per chi governa e richieste di più rappresentanza da parte dei cittadini. Detta in altro modo: se il motto della Rivoluzione americana era “niente tasse senza rappresentanza”, quello dell'autoritarismo petrolifero è “niente rappresentanza senza tasse”. I regimi sostenuti dal petrolio, che non hanno bisogno del consenso popolare per sopravvivere, perché possono semplicemente trivellare un pozzo di petrolio in più, non hanno neanche il bisogno di ascoltare i loro cittadini o chi li rappresenta. Il secondo meccanismo attraverso il quale il petrolio intacca la democrazia – argomenta Ross – è l'”effetto spesa”. La ricchezza da petrolio favorisce l'aumento della spesa assistenziale che in cambio attenua la pressione verso la democratizzazione. Il terzo meccanismo che Ross cita è l'”effetto di formazione di gruppi”. Quando il petrolio assicura entrate impreviste a uno stato autoritario, il governo può impiegare questi mezzi per impedire la formazione di gruppi sociali indipendenti: proprio quelli più inclini a chiedere diritti politici. In più, sempre secondo Ross, una quantità eccessiva di entrate da petrolio può determinare un “effetto repressione” perché consente ai governi di spendere moltissimo per polizia, sicurezza interna e servizi segreti che possono essere usati per soffocare movimenti democratici. Infine Ross individua un “effetto modernizzazione”. Un massiccio afflusso di ricchezza da petrolio può diminuire la pressione sociale per forme di specializzazione occupazionale, per la urbanizzazione e per più alti livelli di educazione: condizioni che normalmente accompagnano un più ampio sviluppo economico e determinano una opinione pubblica più articolata, più capace di organizzarsi, di fare affari e comunicare dotandosi di centri di potere propri.

Dopo l'11 settembre, il prezzo del petrolio si è spostato da un range di 20-40 dollari il barile a un range di 40-60 dollari (L'articolo di Friedman è del 2006, ndr). In parte questo balzo del prezzo ha a che fare con l'insicurezza del mercato globale del petrolio causata dalle ondate di violenza in Iraq, Nigeria, Indonesia e Sudan: ma ancora di più pare essere la conseguenza di quello che io definisco l'”appiattimento” del mondo e del repentino ingresso sul mercato di 3 miliardi di nuovi consumatori, da Cina, Brasile, India ed ex Impero sovietico: tutti desiderosi di una casa, una macchina, un microonde, un frigorifero. Gli appetiti di queste persone e la loro richiesta di energia sono enormi.
Questo è già – e continuerà ad essere – una costante causa di pressione sul prezzo del petrolio. Senza una drastica scelta di risparmio dell'Occidente o senza la scoperta di un'alternativa al carburante fossile, siamo destinati ad andare verso una crescita nell'immediato futuro.

Con le accresciute ricchezze petrolifere, leader di regimi autoritari hanno sempre più soldi da spendere per reprimere l'opposizione, comprare il consenso, ignorare le pressioni internazionali. Politicamente, questo significherà che un intero gruppo di stati petroliferi con deboli istituzioni o con governi totalmente autoritari probabilmente vedrà un'attenuazione delle libertà e un aumento della corruzione e dell'autoritarismo. I leader di questi paesi possono prevedere di avere significativi aumenti delle entrate disponibili per rafforzare le forze di sicurezza, corrompere gli oppositori, comprare voti o consenso pubblico, ignorare norme e convenzioni internazionali. Basta leggere i giornali qualsiasi giorno per averne le prove.

Prendiamo ad esempio un articolo apparso sul Wall Street Journal nel febbraio del 2005 su come i mullah di Teheran (che ora sono pieni di soldi grazie al prezzo del petrolio così alto) stiano voltando le spalle agli investitori stranieri anziché favorirli. Turkcell, un operatore turco di telefonia mobile, ha firmato un accordo con Teheran per realizzare la prima rete di telefonia mobile privata in Iran. Un accordo allettante: Turkcell ha accettato di pagare all'Iran 300 milioni di dollari per la licenza e di investire nell'impresa 2 miliardi e 250 milioni di dollari, creando 20 mila posti di lavoro. Ma i mullah del Parlamento iraniano hanno congelato il contratto, sostenendo che potrebbe favorire lo spionaggio contro l'Iran. Ali Ansari, un esperto di questioni iraniane all'Università di St Andrei in Scozia, ha commentato che gli analisti iraniani stavano discutendo da dieci anni di riforme economiche, ma “adesso lo scenario è molto peggiorato”; “adesso hanno tutti questi soldi per il petrolio altissimo e non hanno alcun bisogno di riformare l'economia”. Vale, per l'Iran, un commento pubblicato dall'Economist: “Il nazionalismo è più facile a stomaco pieno e il sig. Ahmadinejad è l'unico fortunato presidente che possa incassare, l'anno prossimo, 36 miliardi di dollari dalle esportazioni di petrolio per comprare lealtà. Il governo ha promesso di costruire 300 mila case, delle quali due terzi fuori dalle grandi città, e di mantenere i sussidi energetici che ammontano a un esorbitante 10 per cento del prodotto interno lordo”.
 Oppure ancora, consideriamo il dramma che si sta svolgendo in Nigeria. In Nigeria, per il presidente, è previsto un mandato a termine di quattro anni ripetibile una sola volta. Il presidente Olusegun Obasanjo è salito al potere nel 1999 dopo un periodo di governo militare, ed è stato eletto con voto popolare nel 2003. Quando ha preso il potere dai generali nel 1999 Obasanjo ha fatto notizia indagando sulle violazioni dei diritti umani da parte dei militari nigeriani, scarcerando prigionieri politici e perfino facendo un reale tentativo di sradicare la corruzione. Questo avveniva quando il petrolio era a 25 dollari il barile. Oggi, con il petrolio a 60 dollari, Obasanjo sta provando a persuadere il parlamento nigeriano a modificare la costituzione in modo da consentirgli un terzo mandato. Un leader della opposizione nigeriana, Wunmi Bewaji, ha dichiarato che sono state offerte mazzette da 1 milione di dollari per far votare a favore del prolungamento del mandato di Obasanjo. Clement Nwankwo, uno dei più impegnati sostenitori dei diritti umani, ha detto che da quando il prezzo del petrolio ha incominciato a salire “le libertà civili hanno conosciuto un deciso declino: la gente è stata arrestata arbitrariamente, gli oppositori sono stati uccisi e le istituzioni democratiche sono state annullate”. Il petrolio rappresenta il 90% delle esportazioni della Nigeria, ha aggiunto Nwankwo, e questo spiega in parte perché c'è stato un improvviso aumento dei rapimenti di lavoratori petroliferi stranieri nella zona ricca di petrolio del delta del Niger. Il fatto è che molti nigeriani pensano che essi devono aver rubato il petrolio, perché solo una piccolissima parte degli introiti arriva ai nigeriani.
Molto spesso negli stati petroliferi succede che non solo tutta la politica ruota intorno a chi controlla i pozzi, ma nella opinione pubblica matura un concetto distorto di che cosa significhi “sviluppo”. Se la gente è povera e i leaders sono ricchi, non è perché il Paese ha fallito nel promuovere l'educazione, l'innovazione il ruolo della legge e le relazioni imprenditoriali. “Se la Nigeria non avesse avuto il petrolio, allora l'intera equazione politica sarebbe stata differente – ha detto Nwankwo -; il reddito non sarebbe venuto dal petrolio e ci sarebbe stato un problema di diversificazione della economia affrontato dalle aziende private e la gente avrebbe sviluppato la propria creatività”. In realtà, il rapporto fra prezzo del petrolio e crescita della libertà in certi paesi è così stretto che qualsiasi classe politica può essere distratta dal percorso delle riforme da una impennata del prezzo del greggio.

Prendiamo il Bahrain, che sa di stare esaurendo le scorte di petrolio ed è diventato un caso di studio su come la caduta delle entrate derivanti dal petrolio possa spronare le riforme. Neppure questo paese è stato capace di resistere alla tentazione di alzare il prezzo del petrolio. “Stiamo vivendo un momento favorevole adesso grazie al prezzo del petrolio. Questo può spingere le autorità a sentirsi più sicure”. Jasim Husain Alì, capo del dipartimento di ricerca economica dell'università del Bahrain ha dichiarato recentemente: “Ma questa è una tendenza pericolosa, perché il reddito da petrolio non è sostenibile. La diversificazione in Bahrain può essere sufficiente rispetto agli standard del Golfo, ma non lo è rispetto a quelli internazionali”. Non sorprende che un giovane giornalista iraniano mi abbia detto una volta a passeggio per Teheran: “Se solo non avessimo il petrolio potremmo essere come il Giappone”.

Molto più della politica di Reagan, a causare il crollo del comunismo hanno contribuito i prezzi bassi del petrolio alla fine degli anni Ottanta. Ma anche in Russia le cose ormai sono cambiate. Con tutto il rispetto per Ronald Reagan, non credo sia stato lui il responsabile del crollo della Unione Sovietica. Naturalmente le cause sono state molte, ma la caduta globale del prezzo del petrolio alla fine degli anni Ottanta e nei primi anni Novanta sicuramente giocò un ruolo-chiave. (Quando l'Unione Sovietica si sciolse ufficialmente nel 1991 il prezzo a barile del petrolio si aggirava intorno ai 17 dollari). E i prezzi bassi del petrolio hanno sicuramente aiutato a orientare il governo post comunista di Boris Yeltsin verso un maggior rispetto della legalità, una maggiore apertura verso il mondo esterno, e una maggiore cura delle strutture legali come gli veniva chiesto dagli investitori globali. Poi arrivò il presidente russo Vladimir Putin. Pensate alla differenza fra il Putin di quando il petrolio stava a 20-40 dollari e quello di ora, con il petrolio a 40-60 dollari. Nel primo caso avevamo quello che io chiamo il “Putin versione 1”. Il presidente Bush aveva dichiarato dopo il loro primo incontro nel 2001 che aveva guardato “nell'anima” di Putin e vi aveva visto un uomo di cui ci si poteva fidare. Se Bush guardasse nell'anima di Putin oggi – Putin versione 2, con 60 dollari a barile – la vedrebbe molto nera: nera come il petrolio. Vedrebbe come Putin ha utilizzato la sua inaspettata fortuna da petrolio per inghiottire (nazionalizzare) l'enorme società russa di petrolio, la Gazprom, diversi giornali e televisioni e molti altri tipi di aziende russe e istituzioni che prima erano indipendenti. Nel momento più basso dei prezzi del petrolio nei primi anni Novanta, persino i paesi petroliferi arabi, come il Kuwait, l'Arabia Saudita e l'Egitto almeno parlavano di riforme economiche se non di piccoli passi verso la riforma politica. Ma appena i prezzi incominciarono a salire, l'intero processo di riforma si bloccò, specialmente per quanto riguarda gli aspetti politici.

La crescita costante di ricchezza da petrolio potrebbe veramente distorcere l'intero sistema internazionale e la natura stessa del mondo post-guerra fredda. Quando cadde il Muro di Berlino ci fu una generale fiducia per un'irrefrenabile ondata di mercati liberi e di democratizzazione. Il proliferare di elezioni libere nella successiva decade rese quella ondata molto concreta. Ma adesso ci si trova di fronte a una imprevista contro-ondata di petro-autoritarismo, resa possibile dal petrolio a 60 dollari il barile. Tutto a un tratto, regimi come quelli di Iran, Nigeria, Russia, Venezuela, stanno tornando sui loro passi riguardo a quello che sembrava un incontrastabile processo di democratizzazione, con autocrati eletti che utilizzano la nuova ricchezza da petrolio per assicurarsi il potere, comprare la opposizione e i sostenitori ed estendere il potere dello stato nel settore privato, proprio quando molti pensavano che stesse finalmente mollando la presa. L'ondata irrefrenabile di democratizzazione che seguì la caduta del Muro di Berlino pare aver trovato il contrappasso nella nera marea del petro-autoritarismo. Per quanto il petro-autoritarismo non rappresenti il tipo di strategia ad ampio spettro e di minaccia economica che il comunismo poneva all'occidente, tuttavia il suo impianto a lungo termine potrebbe comunque corrodere la stabilità del mondo. Non soltanto alcuni dei peggiori regimi al mondo avranno denaro extra più a lungo che mai per fare le cose peggiori, ma paesi rispettabili e democratici – India e Giappone per esempio – saranno obbligati a inchinarsi o a chiudere un occhio davanti al comportamento di petro-autoritari quali Iran o Sudan per colpa della pesante dipendenza dal petrolio. Questo non può essere un fatto positivo per la stabilità globale.

Qualsiasi strategia di difesa della democrazia sarà destinata a fallire senza iniziative credibili e sostenibili per abbattere i prezzi del petrolio. Lasciatemi ribadire che so che le correlazioni suggerite da questi grafici non sono perfette e, senza dubbio, ci sono eccezioni che sicuramente il lettore potrà evidenziare. Ma sono convinto che i grafici illustrino una tendenza generale che si può ritrovare nelle notizie di ogni giorno: l'aumento del costo del petrolio ha chiaramente un impatto negativo sul cammino di libertà in molti paesi e quando si hanno abbastanza paesi e abbastanza impatti negativi si inizia ad avvelenare la politica globale. Anche se non possiamo condizionare le forniture di petrolio di nessun paese, possiamo però intaccare il prezzo del petrolio modificando la quantità e il tipo di energia che consumiamo. Quando dico “noi” intendo gli Stati Uniti in particolar modo, che consumano circa il 25 per cento dell'energia mondiale, e in generale ai paesi importatori di petrolio. Pensare a come modificare i nostri modelli di consumo di energia per fare scendere il prezzo del petrolio non è più solo un hobby per illuminati ambientalisti, o un qualche personale comportamento virtuoso. Ora è un imperativo di sicurezza nazionale. Per questo, ogni strategia a difesa della democrazia in America che non includa una strategia credibile e sostenibile per trovare alternative al petrolio e per fare scendere il prezzo del grezzo, è totalmente priva di senso e destinata al fallimento. Oggi, non importa che posizione abbiate in fatto di politica estera: non potete essere né un efficace realista in politica estera, né un efficace idealista nella difesa della democrazia senza essere anche un efficace ambientalista energetico.

Thomas L. Friedman è editorialista del New York Times 


Data: 2008-09-17







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