Un documento dell'intelligence USA ridimensiona il programma nucleare iraniano ma l'ideologia khomeinista resta una minaccia, come spiega il dissidente Alireza Jafarzadeh
Fabio Lucchini
George W. Bush non crede all'intelligence americana. Il rapporto delle 16 agenzie secondo il quale l'Iran avrebbe sospeso il suo programma nucleare sin dal 2003 non convince il presidente americano che anzi, dimostrando fastidio ed imbarazzo rispetto all'annuncio, ha ribadito la necessità di non abbassare la guardia e di non scartare nessuna opzione nei confronti degli ayatollah, nemmeno quella militare. Per Washington il danno del documento shock potrebbe essere notevole. In una fase caratterizzata da un progressivo riavvicinamento tra alleati europei e Stati Uniti sul dossier iraniano, il National Intelligence Estimate (questo il nome del documento) e le sue rivelazioni rischiano di indebolire la volontà internazionale di intensificare la pressione su Teheran.
Cina e Russia, impegnate da tempo a stoppare o a rendere inefficacie ogni iniziativa anti-iraniana nel Consiglio di Sicurezza ONU, già cantano vittoria e ribadiscono la propria posizione gradualista. Del resto, se l'intelligence del Paese che ha sinora espresso le posizioni più dure nei confronti del programma nucleare iraniano ne attesta l'avvenuta sospensione, ragionano Pechino e Mosca, non sussistono le condizioni di urgenza per un intervento deciso nei confronti dell'Iran. E, soprattutto, non sussistono le ragioni per intaccare, a seguito di un'eventuale risoluzione ONU che condannasse l'Iran o peggio di un'azione militare, le feconde relazioni economiche dell'asse sino-russo con Teheran. Ad ogni modo, dopo il disastroso dossier sulle fantomatiche armi di distruzione di massa irachene, è legittimo nutrire qualche dubbio sull'affidabilità dei servizi segreti americani, così come sulle reali intenzioni di Ahmadinejad.
Il lavoro di Jafarzadeh va comunque oltre e mira a ricostruire gli ultimi trent'anni di storia iraniana per disvelare un inquietante dato di fatto: l'attuale dirigenza di Teheran non ha buone intenzioni e non è interessata al compromesso, tutt'altro. L'obbiettivo degli ayatollah è quello di acquisire la leadership regionale in Medio Oriente per poter diffondere il “verbo” khomeinista e creare tante repubbliche sorelle che siano ispirate dalla sua stessa visione retriva ed anacronistica dell'Islam sciita. Il possesso della tecnologia nucleare non è perseguito al fine di dotarsi di un legittimo strumento di deterrenza rispetto ad aggressioni esterne, e tanto meno di una risorsa energetica alternativa a petrolio e gas, ma di un puntello ad una politica aggressiva nei confronti di tutti coloro tentassero di opporsi ai disegni egemonici iraniani. In primo luogo, Israele, nemico giurato e simbolo tangibile della diffusione del contagio occidentale nel mondo islamico, che rischierebbe, con un solo colpo (come preconizzato dal “moderato” ex presidente Rafsanjani), di essere wiped off, spazzato via, cancellato, dalla mappa geografica. In secondo luogo, gli Stati Uniti, il Grande Satana imperialista, che si troverebbero di fronte ad un fuoco di sbarramento nucleare qualora decidessero di intervenire militarmente nella regione. In terzo luogo, l'Europa, ebbene sì l'Europa, anch'essa eventualmente nel mirino qualora decidesse di assumere una postura più rigida nei confronti di Teheran.
Khomeini espose queste convinzioni ben prima del 1979, durante il suo esilio in Iraq e Francia, ma fu abile a camuffare la sua delirante concezione della politica nei mesi della cacciata dello Shah e della presa del potere da parte dei Guardiani della Rivoluzione, il braccio armato degli ayatollah. Una volta consolidato il suo controllo sullo Stato, si liberò della maschera rassicurante con cui si era mostrato al mondo occidentale. Fino alla sua morte, avvenuta nel 1989, il mullah, come si era autodefinito in modo blasfemo secondo i canoni sciiti, avrebbe governato con pugno di ferro, eliminando spietatamente tutti gli oppositori e dando il via libera alla morte di centinaia di migliaia di adolescenti iraniani, sacrificati nell'inconcludente guerra di posizione contro l'Iraq di Saddam Hussein. Molti analisti hanno considerato gli anni Novanta come un'era riformista per la politica iraniana, dominata dalla figura del presidente moderato Khatami. Secondo Jafarzadeh, queste considerazioni si basano su presupposti completamente erronei in quanto il potere del clero khomeinista, impersonificato dall'ayatollah Khamenei, non è mai stato messo in discussione negli ultimi ventotto anni ed ha continuato ad indirizzare le linee politiche di fondo dei governi.
Che fare? L'opzione diplomatica è condannata in partenza al fallimento dall'intransigenza strutturale della leadership iraniana, l'intervento militare è pieno di insidie militari e politiche. Dar credito e sostegno all'opposizione interna è la soluzione proposta dall'autore. L'immagine di un Paese compatto e desideroso di difendere il proprio diritto di accedere alla tecnologia nucleare è fuorviante. Solo una piccola parte della popolazione sostiene il regime. In particolare, i giovani e le donne, i gruppi sociali che più risentono del clima repressivo che soffoca il Paese, sono pronti a ribellarsi ed i gruppi d'opposizione non sono così disorganizzati come si crede in Occidente. L'appello che Jafarzadeh rivolge agli Stati Uniti ed all'Europa, che non credono però in questa opzione, è quello di sostenere con più forza l'opposizione democratica al regime, desiderosa di estirpare dall'Iran il fondamentalismo sciita imperante e di instaurare una forma di Stato laica, con la speranza di rilanciare lo sviluppo civile ed economico nazionale. Sviluppo bruscamente interrotto prima dall'irrigidimento autocratico della monarchia di Pahlavi e poi dall'avvento dell'oscurantismo religioso di Khomeini.