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AMERICA STILL WORKS

La recessione non è inevitabile, il futuro dell’America potrebbe essere luminoso. L’analisi dello storico Michael Lind sulla rivista Prospect

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Nel 2050 l'America sarà prospera e unita, grazie a una cultura e una lingua omogenee che contribuiranno a produrre ricchezza in un Paese che potrà così sostenere la spesa di un sistema sociale e sanitario efficiente. Gli Usa continueranno inoltre a essere una superpotenza globale, sebbene non egemone.

È
un'analisi che va contro ogni attuale aspettativa quella apparsa sulla rivista britannica Prospect, a firma di Michael Lind, storico e giornalista, oltre che membro fondatore della fondazione Nuova America di Washington. Nonostante l'economia Usa stia rallentando, il declino dell'America non è affatto inevitabile, afferma Lind, secondo il quale le prospettive a lungo termine rivelano un'immagine degli Stati Uniti più positiva di quanto molti oggi affermino. A sostegno di questa tesi vi sono dati di realtà come il notevole miglioramento di patologie sociali che affliggono la società americana, come la criminalità e l'abuso di droga. I capisaldi, attorno ai quali si sviluppa l'analisi di Lind, sono tuttavia «tre miti americani», che lo storico confuta uno per uno e che ritiene essere la causa di una visione pessimistica degli Stati Uniti che presenta il Paese come «più debole e in crisi di quanto sia in realtà». Un'impressione esacerbata dall'atteggiamento dei candidati alle primarie americane che annunciano, a scopo elettorale, piani di risanamento economico che scongiurino la recessione ormai data per certa. Alla prospettiva “catastrofista” contribuiscono inoltre l'atteggiamento sensazionalistico con il quale i media americani propongono le notizie e interessi faziosi, provenienti dal mondo dell'industria e delle lobby.

Secondo il giornalista «il primo mito americano, prevalentemente conservatore, è quello relativo agli attriti razziali ed etnici che stanno lacerando l'America. Il secondo mito, di stampo liberale, riguarda invece la possibilità che i fondamentalisti religiosi abbiano una crescente influenza sulla politica statunitense. Il terzo mito, di tipo economico e amato dai centristi, è relativo, infine, al pensionamento della generazione del “baby-boom”, un processo che porterà alla bancarotta l'intera nazione che non sarà in grado di sostenere i costi della spesa sociale».
«A parte i conflitti temporanei causati dall'attuale flusso migratorio proveniente dall'America Latina – afferma lo studioso della fondazione New America – la verità è che gli Stati Uniti sono più integrati che mai. Nel lungo termine le diversità razziali e culturali diminuiranno come risultato di un “melting pot” di successo che si attuerà attraverso l'assimilazione degli immigrati e matrimoni misti tra gruppi etnici diversi.  Molte delle patologie sociali del Paese, dalla criminalità all'abuso di droga, continueranno a registrare miglioramenti» di portata significativa.

Lind cita poi le statistiche dell'Ufficio del Censimento Usa, pubblicate nel 2004 in riferimento a dati raccolti nel 2000, che confermerebbero l'ipotesi di una futura frammentazione razziale ed etnica degli Stati Uniti: «Tra 50 anni – afferma lo studio – la popolazione ispanica e quella asiatica si triplicheranno in America dove i bianchi non ispanici potrebbero ridursi a metà della popolazione totale (dal 69.4% passeranno al 50.1% dal 2000 al 2050)».
Il ricercatore evidenzia tuttavia un'incongruenza nei numeri indicati dal U.S. Census Bureau che si basa, a suo avviso, su di un arbitrario sistema di classificazione razziale adottato nel 1970, che divide gli americani nelle seguenti categorie: bianchi, neri, asiatici, americani nativi (indiani) e ispanici. L'errore, secondo Lind, risiede nel classificare gli  “ispanici” come una sola razza, quando in realtà, i fenomeni migratori dei secoli passati hanno creato una varietà di razze che oggi compongono tale categoria. Sono infatti ispanici sia individui di razza bianca, come tanti americani-argentini biondi con gli occhi azzurri di origine europea, sia americani-brasiliani di colore, i cui antenati provenivano dall'Africa. Un sondaggio, condotto nel 2000, ha rilevato, tra l'altro, che il 48% degli ispanici identificava se stesso come “bianco”, il 2% affermava di appartenere alla categoria “di colore”, il 6% si definiva “di razza mista” e il 43% appartenente ad “altre razze”.   Differenze che risultano rilevanti per definire la reale composizione razziale degli Stati Uniti che altrimenti appare “falsata”. Se si considerano gli ispanici come un'unica categoria e ad essa si sommano neri e asiatici, è possibile affermare che già oggi la popolazione della California e del Texas è a maggioranza non bianca. Nel caso in cui si segua invece la logica che riconosce la composizione variegata delle razze che compongono l'universo “ispanico” il panorama Usa, presente e futuro, cambia in maniera netta e la riduzione della maggioranza bianca risulterà più moderata rispetto alle stime finora offerte dal Census Bureau, passando dal 74.5% nel 2000 al 61.8% nel 2050 (invece del 50.1%). Cifre che sono, tra l'altro, sottostimate in quanto non includono i futuri nati da matrimoni misti, di cui una parte si potrà ritenere bianca. «Anche dal punto di vista linguistico non si prospetta una futura primazia dello spagnolo, continua Lind, che anche a sostegno di questo argomento offre statistiche che evidenziano come tra la seconda generazione di ispanici, circa la metà parli spagnolo e meno del 10% parli soltanto spagnolo. Sulla base di questi elementi dalla terza o quarta generazione, gli ispanici americani parleranno quasi esclusivamente inglese».

Passando al secondo mito, relativo all'ipotesi di un crescente peso dei fondamentalisti religiosi nelle stanze del potere, Lind osserva che molti analisti esterni all'America sostengono che gli statunitensi stanno diventando sempre più religiosi mentre gli europei si avviano ad essere sempre più secolari. Ma questo «non è semplicemente vero», replica lo scrittore, secondo il quale «il trend a lungo termine, sia negli Stati Uniti sia in Europa, è verso una maggiore secolarizzazione».
Lind spiega inoltre che l'impressione di una crescente influenza della religione nella vita politica è dovuta al fatto che la fede è «sempre stata parte della vita pubblica americana». A questo proposito Lind cita presidenti liberali del Ventesimo secolo come Wilson, Roosevelt, Truman e Johnson che facevano riferimento a Dio e alla Bibbia molto di più  di attuali politici conservatori. Inoltre, il processo di secolarizzazione è riscontrabile maggiormente negli Stati della costa dove procede in maniera più rapida rispetto al Sud, che è più conservatore. «Il fenomeno della destra religiosa – sottolinea l'intellettuale – caratterizza quasi esclusivamente bianchi di fede protestante che vivono nel Sud degli Stati Uniti». Lo storico “smonta” infine il collegamento, compiuto da alcuni osservatori esterni, secondo il quale i fondamentalisti religiosi hanno interessi comuni alle élites economiche capitaliste. «Secondo i sondaggi – afferma Linda – l'unico gruppo ostile, quanto i radicali di sinistra,  ai potentati economici e alle grandi banche sono membri della destra religiosa». 

Il terzo mito, che, a fronte dei segnali di recessione attuali, potrebbe essere considerato il più concreto in un futuro prossimo, riguarda infine il pericolo che l'America sia sull'orlo della bancarotta e di un collasso economico. Le cause del crollo sono individuate dagli allarmisti, sottolinea Lind, nell'impossibilità del governo Usa di reggere a lungo termine la spesa legata all'assistenza sociale e sanitaria, entrambe in continua crescita. Lo storico contesta questa possibilità asserendo che si poggia sull'erronea ipotesi che il tasso di crescita della produzione americana continui a rallentare nel prossimo mezzo secolo a un ritmo di  1.7%. Una cifra che è «solo di poco maggiore alla media del 1.5% del periodo di bassa produttività che si è registrato tra il 1973 e il 1995», al quale è seguito un periodo «dal 1996 al 2006 in cui la crescita produttiva ha avuto un boom segnato da tasso annuale che variava tra il 2 e 3%  nella maggior parte degli anni. La produzione è successivamente rallentata nel 2004 per risalire di nuovo nell'ultimo trimestre al 6.3%».
Nessuno può sapere – prosegue Lind – che cosa abbia prodotto di preciso la ripresa di un alto tasso di crescita degli ultimi dieci anni. «Ma il punto è che, se la produzione americana cresce a un tasso vicino alla media storica registratasi tra il 1945 e il 2008, la prospettiva della capacità di solvenza (del governo americano) della spesa legata alla sicurezza sociale sono molto più luminose». «Senza voler avviare una discussione sui prospetti economici – aggiunge lo scrittore – è tuttavia bene notare che la produzione statunitense degli ultimi dieci anni è cresciuta di circa il 35%, e dunque a un tasso più veloce di qualsiasi Paese del G7».  

Riguardo al futuro ruolo degli Stati Uniti nel mondo e le previsioni di uno spostamento degli equilibri della ricchezza e del potere globale seguiti dalla crescita di potenze asiatiche come Cine India, Lind riconosce che le analisi oggi diffuse sono corrette.  «Tuttavia – osserva – il processo avverrà a spese dell'Europa, la cui quota del Prodotto interno lordo sulla produzione mondiale si ridurrà in maniera consistente a causa di una diminuzione o di una mancata crescita della sua popolazione».
 Quasi contemporaneamente alla pubblicazione dell'analisi di Lind è giunta la notizia, apparsa venerdì scorso sul New York Times, del taglio di 17.000 posti di lavoro nel mese di gennaio, il primo declino consistente nella forza lavoro statunitense degli ultimi quattro anni. Si tratta di «un segnale forte che solleva il dubbio che gli Stati Uniti si trovino già nei primi stadi di una recessione» che tuttavia non esclude le ipotesi avanzate dallo studioso della New America Foundation che riguardano una prospettiva a lungo termine.  Secondo l'ultimo rapporto del governo Usa sul mercato del lavoro, citato dal New York Times, più della metà delle aziende della nazione hanno operato tagli di unità lavorative nel mese di gennaio. La debolezza generale del mercato del lavoro, che ha colpito molteplici settori (in primis quello della manifattura e della finanza), mostra inoltre come il crollo della bolla speculativa e la crisi del mercato creditizio stiano avendo effetti anche sul resto dell'economia. A fronte di tali elementi, sottolinea il quotidiano americano, si prevedono imminenti problemi «per milioni di famiglie americane in termini di licenziamenti, riduzione delle buste paga e una diminuzione delle ore lavorative». Parla di una recessione ormai alle porte anche lo studio condotto dal dipartimento del Commercio americano, pubblicato il primo di gennaio, secondo il quale l'economia Usa è cresciuta al «tasso minuscolo dello 0.6%  nel quarto trimestre». «I due report – continua il New York Times – hanno convinto molti a Wall Street che la Banca centrale americana, nel tentativo di invertire la rotta, continuerà a tagliare il costo del denaro» che, «secondo alcuni analisti, potrebbe raggiungere il 2% nell'arco di quest'anno» al fine di ridurre la pressione sulle rate dei mutui e dei prestiti.






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