A ONE PACKAGE DEAL
Chiunque tenti di interpretare l’accordo raggiunto a Doha sul Libano dal punto di vista libanese commetterebbe un errore poiché la prospettiva giusta non è il Libano ma l’Iraq
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Mamoun Fandy
Chiunque tenti di interpretare l'accordo raggiunto a Doha sul Libano dal punto di vista libanese commetterebbe un errore poiché la prospettiva giusta non è il Libano ma l'Iraq.
A Doha si è raggiunto un vero e proprio deal diplomatico ma la discussione non aveva per tema né il Libano né Doha. Il negoziato si è svolto su due campi di battaglia, due stati e due teatri di guerra. I paesi che giocano il ruolo di mediatori nella regione hanno infatti ritenuto che il Libano fosse il teatro adatto all'azione diplomatica, ma gli occhi di Stati Uniti, Iran e Turchia erano orientati altrove, ovvero in Iraq.
È l'Iraq la vera arena dell'iniziativa diplomatica. È in Iraq che si gioca la partita ed è l'Iraq che offre la posta diplomatica più importante. È su questo campo che hanno giocato Stati Uniti, Iran e Turchia, non sul Libano – come invece avevano creduto gli Arabi. Mentre la diplomazia araba, guidata dalla Lega Araba e dal suo Segretario generale, Amr Musa, si dava da fare sul campo libanese, la partita diplomatica tra Usa, Turchia e Iran, si giocava sul terreno iracheno.
Mentre gli arabi si attendevano che nel discorso a Sharm al-Sheikh, in occasione della recente visita in Egitto, il Presidente statunitense, George W. Bush, annunciasse la fondazione dello stato palestinese, Stati Uniti, Iran e Turchia (altra squadra, altro campo di gioco) lavoravano per porre fine una volta per tutte al sogno dello stato kurdo, che per Iran, Turchia e Siria rappresenta una minaccia comune. La creazione dello stato palestinese non è un problema né per la Turchia né per l'Iran. Il loro problema è lo stato kurdo.
Come si sa, il Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK) è una spina nel fianco del moderno stato turco. Noto per il suo estremismo e l'attivismo nel nord dell'Iraq e nel sud della Turchia, il PKK ha costretto la Turchia ad intervenire su suolo irakeno per reprimere gli attacchi dei ribelli kurdi.
In Turchia vivono più di 20 milioni di kurdi, oltre il 40% della popolazione totale; sei milioni sono i kurdi in Iran, concentrati soprattutto nelle quattro province nord-occidentali. Una vera minaccia per lo stato iraniano, prima e durante il regno dello Shah e, dopo, con la creazione della Repubblica Islamica, che pure i kurdi hanno sostenuto. È questo problema comune che ha spinto Turchia e Iran a siglare un accordo di cooperazione in occasione della recente visita del Primo Ministro turco, Recep Tayyip Erdogan, a Tehran. L'accordo prevede che i due paesi facciano fronte comune contro i combattenti kurdi e cooperino per impedire la creazione di un'entità kurda indipendente nel nord dell'Iraq, che potrebbe rafforzare il movimento secessionista kurdo e portare alla nascita di uno stato kurdo indipendente.
In Siria, il problema kurdo è meno grave che in Turchia e in Iran; tuttavia, il problema esiste. Lo dimostrano gli scontri degli anni scorsi ad Al-Qamishli, nel nord est del paese. In Siria ci sono circa due milioni di kurdi. Sono presenti nelle principali città, ma la presenza più consistente è nella provincia di Al-Hasakah.
I kurdi siriani hanno sempre subito l'influenza delle attività dei kurdi presenti nelle regioni confinanti. I kurdi siriani si sono in massa arruolati nelle fila dei peshmerga, nel nord dell'Iraq, e la presenza del PKK nel mondo dei kurdi siriani ha contribuito a rinnovare presso i kurdi lo spirito nazionalista che ha spinto molti giovani a combattere nelle montagne del Kurdistan.
Ma la cosa importante è che l'arena strategica nella quale gli Stati Uniti hanno deciso di giocare le carte della diplomazia non è il Libano ma l'Iraq.
Gli Stati Uniti vogliono porre fine agli attacchi contro le loro forze dispiegate in Iraq; l'obbiettivo è guadagnare i punti che gli consentano di vincere.
L'Iran vuole avere un'influenza strategica sul sud dell'Iraq e vuole che a Baghdad sieda un governo amico. Vuole inoltre infrangere il sogno di uno stato kurdo nel nord dell'Iraq. Gli Stati Uniti sono pronti a negoziare con l'Iran, in cambio dell'abbandono delle attività di arricchimento dell'uranio, dello scontro con gli Usa in Iraq, e del supporto alle formazioni religiose come Hezbollah, Hamas, la Fratellanza musulmana.
La Turchia ha gli stessi obbiettivi ma, in cambio dell'influenza iraniana nella regione, vuole poter esercitare influenza nel nord dell'Iraq. La Siria, oltre a impedire la creazione dello stato kurdo, vuole la restituzione del Golan da parte del Libano. Gli interessi di questi paesi si intersecano con quelli degli Usa sul terreno irakeno. Iran, Turchia e Siria sono gli attori principali sull'arena irakena, e Iran e Siria lo sono anche sul terreno libanese. L'obbiettivo degli americani è di salvare la faccia in Iraq: hanno dunque capito che non c'è alternativa al negoziato con i tre paesi nonostante le divergenze e la reciproca ostilità.
Gli accordi di Doha costituscono allora una parte necessaria del deal, per predisporre Iran e Siria a cooperare al raggiungimento degli obbiettivi americani in Iraq, non in Libano.
Non si deve dimenticare, inoltre, che gli Stati Uniti sanno bene che in Libano è Hezbollah ad avere il controllo della forza militare. Come hanno dimostrato i fatti recenti, la guerra del luglio 2006 con Israele, e l'egemonia di Hezbollah su Beirut durante l'ultima crisi.
Naturalmente, anche il Qatar ha un dossier aperto con l'Iran; si tratta del giacimento di Haql al-Shimal che, da solo, vale un quarto delle riserve mondiali di gas e che potrebbe provocare tensioni a livello internazionale paragonabili a quelle scatenate da Saddam per il giacimento di Al-Rumaylah, in Kuwait, che ha portato all'invasione irakena nel 1990. Il Qatar, inoltre, ha importanti relazioni diplomatiche con gli Stati Uniti. Le due principali basi militari statunitensi si trovano in Qatar. Ed è questo che ha reso il Qatar il principale attore diplomatico della regione ed il mediatore tra Stati Uniti ed i paesi dell'area.
Gli interessi convergenti tra Stati Uniti, Iran, Turchia, Siria e Qatar spiegano la visita in Siria, a Teheran e nel sud del Libano, dell'emiro del Qatar, lo sceicco Hamad Bin Khalifa AlThani.
E spiegano anche perché il Presidente iraniano Ahmadinejad sia stato invitato a partecipare al Gulf Cooperation Council [GCC], recentemente promosso a Doha.Ed è questa convergenza di interessi che spiega anche la partecipazione della Turchia e del Ministro israeliano degli Affari Esteri, Tzipi Livni, al Doha Forum for Democracy, Development, and Free Trade, che si è tenuto dopo la visita dei capi di stato del Qatar e della Turchia in Siria, e del capo di stato siriano in Turchia e Qatar.Questa convergenza di interessi ha permesso la coincidenza tra l'accordo di Doha per il Libano, i negoziati tra Siria e Israele, i colloqui segreti tra Israele e Hamas.Ed è forse la fiducia dell'Amministrazione statunitense per il successo diplomatico del deal che ha spinto il Presidente George W. Bush ad usare i toni aspri del discorso di Sharm al-Sheikh contro l'Egitto.
Non appena gli Stati Uniti si sono resi conto che i moderati del mondo arabo non erano più né disponibili né capaci di soddisfare i loro bisogni, hanno deciso di trattare direttamente con gli hard-liners – Iran, Siria e i movimenti radicali.
Quello che è avvenuto, insomma, è che mentre la Lega Araba trattava con i libanesi la questione del Libano, gli Stati Uniti ed i paesi che hanno un interesse convergente con il loro, trattavano sul campo irakeno.
È stata una partita giocata con alta professionalità e che ha permesso di “risolvere” in un solo colpo tutti i problemi sul campo.
L'articolo è apparso per la prima volta su Asharq Alawsat Mamoun Fandy is senior fellow for Gulf security and director of the Middle East programme at the International Institute for Strategic Studies (IISS) in London. Before joining IISS he previously served as Senior Fellow of Arab and Middle East Politics at the James A. Baker III Institute for Public Policy at Rice University. Prior to that he was a Senior Fellow at the United States Institute of Peace in Washington DC, Professor of Middle East Politics at the Near East–South Asia Center for Strategic Studies (NESA) at the National Defense University, and Professor of Arab Politics at Georgetown University. His articles have appeared the New York Times, Washington Post, Los Angeles Times, the Financial Times, and the Christian Science Monitor.
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