Milioni di persone al di fuori dei confini americani guardano alle elezioni negli Stati Uniti come se il prossimo presidente dovesse avere un’influenza anche sulle loro vite. Dall’Europa all’Asia fino all’Africa, la campagna elettorale statunitense è seguita con un interesse mai riscontrato prima e che sconfina in un sentimento di speranza, da un lato, e di ostilità dall’altro.
Speranza che è rivolta al futuro presidente Usa, che molti osservatori sparsi per il mondo si augurano possa rappresentare un cambiamento significativo alla guida di una superpotenza che, in quanto tale, inevitabilmente condiziona, sia sotto il profilo economico sia sotto quello della stabilità, l’intero globo. L’ostilità è indirizzata invece all’attuale inquilino della Casa Bianca, il repubblicano George W. Bush, la cui politica estera è criticata al pari di impopolari contraddizioni che hanno caratterizzato le scelte americane degli ultimi anni in materia di diritti umani e ambiente (dal rifiuto di aderire al protocollo di Kyoto al carcere cubano di Guantanamo fino al recente no alla moratoria Onu sulla pena di morte).
A raccogliere i dati su questo atteggiamento è un’inchiesta del quotidiano
International Herald Tribune (IHT), che ha condotto una serie di interviste da un capo all’altro della Terra, e dalle quali emerge che
«gli osservatori esterni all’America si struggono dal desiderio di cambiamento tanto quanto alcuni candidati alla presidenza americana lo promettono». Gli entusiasmi stranieri verso la campagna presidenziale sono inoltre mobilitati dalla novità rappresentata da due candidati democratici in lizza: Hillary Clinton e Barack Obama. Ovvero: la possibilità di una donna o di un nero alla Casa Bianca.
Tra i primi ad associare Obama a John F. Kennedy è stato proprio il giornale tedesco Bild che ha decretato: «L’americano di colore Obama è diventato il nuovo Kennedy». Affermazioni che hanno preceduto, tra l’altro, quelle della figlia del presidente ucciso a Dallas, Caroline Kennedy, che in un articolo pubblicato domenica sul New York Times ha scritto su Obama: «Per la prima volta, credo di avere trovato l’uomo che potrebbe essere un presidente come mio padre: non solo per me, ma per una nuova generazione di americani».
A Parigi il duello Obama-Clinton eclissa le primarie repubblicane nella diffusa convinzione che «l’era repubblicana è finita».
Un auspicio che non riguarda soltanto i francesi, sottolinea l’IHT, secondo il quale l’intensa attenzione rivolta all’estero alle primarie e ai caucus, «pare mossa anche dal desiderio che il processo elettorale americano ponga fine all’era della supremazia dei neoconservatori in politica estera».
«C’è un disperato bisogno che là fuori ci sia qualcosa meglio di Bush» ha dichiarato al quotidiano di lingua inglese Dean Godson, presidente del Policy Exchange, un gruppo di ricerca londinese di stampo conservatore.
Le opinioni, tuttavia, cambiano a seconda del punto di vista e dal tipo di relazioni che i diversi Paesi del globo hanno con gli Stati Uniti. Come rileva l’IHT, «numerosi partner commerciali dell’America in Asia temono la tendenza democratica verso il protezionismo economico e una maggiore rigidità nell’adempimento di obiettivi ambientali volti a frenare le emissioni di gas serra».
L’economia non è invece la preoccupazione di Ramesh Thakur, professore di Scienze politiche in India, secondo il quale «Noi stranieri preghiamo affinché il nuovo presidente riporti l’America alla sua forza, ai suoi valori e alla tradizione di esportare speranza e ottimismo»
. Una visione di rinnovamento condivisa in Giappone come ha mostrato un recente editoriale del giornale Mainichi Shimbun che ha sottolineato, tra l’altro, che «si è infranta l’idea che solo un bianco può diventare presidente negli Usa».
Spostandosi in Israele, «le elezioni americane sono guardate attraverso il limitato prisma della propria sicurezza – scrive il giornale di proprietà del New York Times – e la ...