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Le relazioni Europa-Usa dopo le presidenziali 2008


Le elezioni presidenziali americane del 2008 offriranno l'opportunità di rilanciare le relazioni tra Washington e Bruxelles, superando la crisi determinata dall'affaire irakeno.

Inutile negarlo. Da ambo le sponde dell'Oceano, si attribuisce all'imminente cambio della guardia alla Casa Bianca, il potere di sanare le divisioni e liquidare insieme a Gorge W. Bush, anche le incomprensioni legate alle controverse scelte della sua amministrazione.

Il Centre for European Reform di Londra, tuttavia, non la pensa affatto così e in un pamphlet appena pubblicato - The Us Elections And Europe: The Coming Crisis Of High Expectations - ammonisce Europa e Stati Uniti a non porsi aspettative troppo ambiziose.

Le considerazioni del think tank britannico non hanno il carattere della mera speculazione teorica, ma si affidano alla ratio di una protagonista del foreign relations design americano, come Kori Schake che, oltre ad essere ricercatrice presso la Hoover Institution nonché Distinguished Chair presso l'International Security Studies dell'Accademia militare di West Point, ha fatto parte del Consiglio per la Sicurezza Nazionale durante il primo mandato del Presidente Bush.

Nel saggio citato, la Schake argomenta il realismo delle sue considerazioni col fatto che in Europa, dalla nuova amministrazione, ci si attende una svolta multilateralista che invece non ci sarà. Chiunque vincerà le elezioni – sostiene infatti la Schake – la Casa Bianca continuerà a giocare sul risiko internazionale come “una potenza eccezionale e talvolta persino svincolata dal diritto internazionale.”

Analogamente, anche negli States covano aspettative non proprio giustificate. Gli americani, osserva infatti l'autrice, confidano che il cambio di leadership si traduca nella maggiore disponibilità dell'Europa ad assumersi la co-responsabilità nella risoluzione delle crisi globali. Ma anche in tal caso le aspettative sono destinate ad infrangersi contro una realtà europea tutt'altro che dissonante sull'opportunità di tenersi il più possibile alla larga dai guai mediorientali.

Secondo l'autrice, infatti, gli europei sono convinti che se avesse prevalso la strategia del soft-power da essi invocato, a Baghdad la situazione non sarebbe quel buoco nero che sembra invece oggi, e che dunque neppure la fine dell'era Bush giustifichi la scelta di aiutare gli Usa investendo nuove risorse per la difesa.

Per evitare un'ulteriore involuzione nei rapporti transatlantici e capitalizzare le opportunità offerte dal cambio al vertice della Casa Bianca, il saggio suggerisce allora ad Europa ed Usa di ribilanciare le relazioni secondo una linea “evolutiva” piuttosto che “rivoluzionaria”, ovvero attraverso un progressivo aggiustamento dei punti di vista sui dossier che più stanno a cuore all'Europa, dall'Iran al cambiamento climatico.

In secondo luogo, si scrive, è necessario che Europa e America trovino il modo per affrontare in termini costruttivi la questione irachena, e per farlo non c'è altra strada se non quella di accettare la condivisione delle responsabilità e il superamento del trauma sulla legittimità del coinvolgimento americano.

Se si seguisse questa rotta, sostiene ancora l'autrice, entrambe le sponde dell'Atlantico dovrebbero integrare il proprio repertorio argomentativo. Gli Stati Uniti, ad esempio,  pur sentendo il peso dell'isolamento, dovrebbero compiere lo sforzo di capire il costo politico pagato da quei governi europei che ne hanno sostenuto la campagna irakena. Analogamente, in un momento come questo in cui, come ciclicamente avviene, gli Stati Uniti sembrano inclini a ipotizzare alleanze strategiche alternative, gli europei dovrebbero ricordare le ragioni strategiche oltre che storiche che ne fanno gli alleati più preziosi ed insostituibili dell'America.
Il pamphlet può essere ordinato online, sul sito del Cer.






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